“I favolosi 60” di Gabriele Bojano. Lo
sfoglio, qualcosa non mi convince. Non mi convince l’affermazione di Antonio
Polito che c’è il ritratto di sessanta persone. Come Didimo, tentato di mettere
il dito nella ferita del Cristo, vado a contare: non sono sessanta, ma
sessantuno. Mi piacerebbe sapere chi c’è entrato di straforo o, come si dice in
gergo calcistico, in zona Cesarini. No, quale straforo? Ele è fuori elenco. «E’
la mia metà», sottolinea Gabriele e l’omaggio è doveroso. Se mai, a voler
essere pignolo, devo aggiungerci proprio lui, l’autore, che non s’è limitato a
descrivere i personaggi presi in esame (in ordine alfabetico), ma se n’è reso
protagonista, anzi “il” protagonista, dato che li usa per raccontare sé stesso.
E su questo ha ragione Polito: Gabriele l’ha azzeccata. L’idea di raccontarsi,
attraverso gli altri, è un vero colpo di genio.
Ma torno all’aggettivo “favoloso”
applicato ai 60. Che pure è intrigante. Sessanta rimanda ai soggetti descritti,
nati nel ’60, quindi sessant’anni fa, giunti quasi in contemporanea all’età di
sessant’anni. Un po’ complicato per chi, come me, nel ‘60 ne aveva già
venticinque e viveva da adulto – ma non per questo distrattamente – quel
periodo favoloso, rappresentato da icone che avevano il nome di Grace Kelly, Brigitte
Bardot, Jacqueline Kennedy. E - accidenti!, me ne stavo dimenticando (che
brutti scherzi fa la vecchiaia) - Marylin Monroe, affacciatasi prepotentemente
in quel decennio e poi sparita, dopo un anno e mezzo, come un arcobaleno.
Il sottotitolo, a mo’ di catenaccio, mi
lascia perplesso: “Troppo giovani per tirare i remi in barca Troppo vecchi per
tirare la barca a remi”. A ottantasei anni la mia vita scorre densa di
sorprese, di emozioni. Azzardo ancora progetti. Gabriele mi deve credere: non
si è mai troppo vecchi, se i lumi nel cervello restano accesi.
Quanto ai sessanta/sessantuno, le cui
storie s’intrecciano con quelle di altri personaggi, che pure sono citati, mi
accorgo che ne ho conosciuto solo qualcuno: Antonio Adiletta (anche Lelio
Schiavone, del Catalogo, con i quali ho avuto contatti al tempo delle mostre a
Salerno curate da Massimo Bignardi), Luciano Alfano (credo di averlo incontrato
una volta, tanto tempo fa: mi diede il suo biglietto da visita), Tino Iannuzzi
(perso di vista dopo l’elezione in parlamento), Diego Armando Maradona (col
quale stetti una sera a cena al Giardiniello di Minori), Oreste Mottola
(collega, amico anche su facebook), Delio Rossi (che incontrai a Tramonti),
Paolo Vuilleumier (unico rappresentante della Costa d’Amalfi nel libro). Ma io
ho vissuto per lo più al di là di Capo d’Orso, appendice del mondo.
Non ho conosciuto Carol Alt, e me ne
dolgo, ma sono stato a cena con Barbara Bouchet e ho preso il caffè con Edvige
Fenech (e Montezemolo, ovvio) ad Amalfi. Mica male! Non ho avuto il piacere
d’incrociare Franco Arminio. Per quanti sforzi faccia, non riesco a ricordarmi
se ho mai scambiato parole con Stefano Caldoro (eppure, seguivo per il Giornale
di Napoli l’attività politica di Carmelo Conte, quando era ministro, in Costiera
amalfitana).
Gabriele Bojano, attraverso il racconto
della sua lunga intensa e brillante carriera giornalistica, dalle prime
esperienze in radio al Corriere del Mezzogiorno oggi, ricostruisce pagine di
storia salernitana, e non solo: che abbracciano cronaca, spettacolo, politica,
sentimenti, costume. Lo fa con una punta di amarcord, com’è giusto che sia, ma
con un tono leggero, sorridente. Senza mai perdere di vista la felicità, che
non è racchiusa in «attimi di dimenticanza», come diceva Totò e Fiorello
conferma. La felicità è fatta anche di ricordo: che rimane «l’unico paradiso –
scriveva Jean Paul nel ‘700 - dal quale non possiamo venir cacciati».
©Sigismondo Nastri (da: Il Vescovado)
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