A conferma del declino preoccupante della lingua napoletana - e non solo quella scritta, peraltro complicata (a proposito, che orrore i testi di certe canzoni di oggi! da mettersi le mani nei capelli!), anche quella parlata, con la quale è cresciuta la mia generazione, ormai imbastardita da cattivo italiano e inglesismi vari - cito il fatto che da molte parti mi viene chiesto il significato della parola cannarizia che ha dato titolo al mio “ricettario in prosa”, edito da Areablu fuori commercio. Per la verità mi viene anche chiesto dove e come reperire il libro e questo mi mette in serio imbarazzo. Spero che, prima o poi, l’editore valuti l’opportunità di una ristampa da affidare ai circuiti di vendita. Gliene do piena facoltà.
Nella Canzone de lo Capo d’Anno, della quale curai per De Luca un'edizione in pregiata carta d'Amalfi di Amatruda, a proposito delle spese folli che caratterizzano il periodo natalizio, c’è una strofa che recita così: “la gente trase e esce, / e corre, e va e vene, / e spenne quanno tene pe’ la canna”.
La canna è la gola, il condotto attraverso il quale ingurgitiamo il cibo: detto anche, in modo dispregiativo, cannarone o cannaruozzo. L’azione dell’ingoiare è cannarià. Il goloso è 'o cannaruto.
A volte, se non riusciamo a ottenere una cosa che desideriamo fortemente, diciamo che ci è rimasta ‘ncanna. E se vogliamo mandare un’imprecazione a chi, magari – facciamo che si tratti di una leccornia -, la sta consumando avidamente in solitudine, diciamo: “puozze annuzzà’ ‘ncanna” (che tu possa soffocare). Non dovrebbe capitare mai. Il napoletano sa bene – perché gli è stato trasmesso dagli antenati - che “chi magna sulo s’affoca” (chi mangia da solo si strozza).
La cannarizi”, o cannarutizia, è la golosità, non intesa come ingordigia, ma come piacere di assaporare pietanze prelibate, dolci o salate che siano. E’ peccato? Forse sì, ma veniale, da non riferire nel confessionale. Chi ne è esente, si faccia avanti. Un antico proverbio ammonisce che “adda murì’ ‘e truono chi nun lle piace ‘o buono” (deve morire di tuono colui al quale non piace ciò che è buono).
© Sigismondo Nastri
Nella Canzone de lo Capo d’Anno, della quale curai per De Luca un'edizione in pregiata carta d'Amalfi di Amatruda, a proposito delle spese folli che caratterizzano il periodo natalizio, c’è una strofa che recita così: “la gente trase e esce, / e corre, e va e vene, / e spenne quanno tene pe’ la canna”.
La canna è la gola, il condotto attraverso il quale ingurgitiamo il cibo: detto anche, in modo dispregiativo, cannarone o cannaruozzo. L’azione dell’ingoiare è cannarià. Il goloso è 'o cannaruto.
A volte, se non riusciamo a ottenere una cosa che desideriamo fortemente, diciamo che ci è rimasta ‘ncanna. E se vogliamo mandare un’imprecazione a chi, magari – facciamo che si tratti di una leccornia -, la sta consumando avidamente in solitudine, diciamo: “puozze annuzzà’ ‘ncanna” (che tu possa soffocare). Non dovrebbe capitare mai. Il napoletano sa bene – perché gli è stato trasmesso dagli antenati - che “chi magna sulo s’affoca” (chi mangia da solo si strozza).
La cannarizi”, o cannarutizia, è la golosità, non intesa come ingordigia, ma come piacere di assaporare pietanze prelibate, dolci o salate che siano. E’ peccato? Forse sì, ma veniale, da non riferire nel confessionale. Chi ne è esente, si faccia avanti. Un antico proverbio ammonisce che “adda murì’ ‘e truono chi nun lle piace ‘o buono” (deve morire di tuono colui al quale non piace ciò che è buono).
© Sigismondo Nastri
Nessun commento:
Posta un commento