Quando vivevo ad Amalfi, passando per la
piazza del Duomo, non riuscivo a immaginare lo spazio retrostante la fontana
del Popolo, dominata dalla statua di marmo dell'apostolo Andrea, senza che si intravedesse,
all'ingresso del suo stracolmo negozio di ceramica, la figura pacioccona,
simpatica, sorridente e accogliente di Gaspare Di Lieto. Mi fermavo a parlare
con lui ed era sempre un piacere ascoltarlo.
Il mio rapporto con i Di Lieto risale a
quando, ragazzo, frequentavo l’Azione cattolica. Il fratello Teodoro ne era
presidente. Divideva il tempo tra negozio e Seminario dove era ospitato il
Centro diocesano A.C. Lì tenevamo le nostre riunioni. Ma conoscevo bene anche
il padre, don Matteo, che da stagnaro si era trasformato in maestro eccelso nel
modellare la creta. Realizzò il presepe sommerso per la Grotta dello smeraldo,
le tavole della Via Crucis per l’ex cattedrale di Scala, tante altre piccole
opere che fanno gola ai collezionisti. Ne ho comprato su internet quando ho
potuto. Riuscì a mettere la ceramica di Atrani, dove la si lavorava, in
competizione con quella di Vietri sul Mare. L’industria grafica e cartaria De
Luca, alcuni anni fa, le ha dedicato uno splendido calendario. In quella
piccola azienda, erano impegnati, con compiti diversi, i figli. In particolare
Mario, che aveva seguito studi d’arte ed era un pittore veramente bravo.
Una volta i dipendenti della piccola
fabbrica, situata in un vicoletto accessibile sia dalla strada statale che dalla
piazzetta, indissero uno sciopero. Per una rivendicazione economica. Me ne
parlarono. Senza nemmeno pensarci mi schierai al loro fianco con un articolo
sul Quotidiano (giornale, manco a farlo apposta, legato alla Chiesa e ai
vescovi). Ci andai pesante. Ero giovanissimo (16-17 anni), di esperienza ne
avevo poca. Gaspare si prese collera, indisse una conferenza stampa con la
presenza dei sindacati. La cosa si chiarì, rimanemmo amici.
Nel periodo in cui abitavo nel palazzo
Amodio, sulla Sciulia, avevamo come dirimpettaia la sorella di Gaspare, la
signora Rosa. Le nostre case erano divise dallo stretto corridoio chiamato via
Arsina: una distanza di un metro, un metro e mezzo. Ricordo lunghe
chiacchierate tra lei e mia madre attraverso le finestre. Ogni tanto si
passavano, allungando la mano, qualcosa: una cipolla, una testa d’aglio, un
mazzetto di prezzemolo, una foglia di basilico, secondo le necessità di
ciascuna.
Ero, e sono, amico di Gennaro, il figlio
più piccolo di Matteo Di Lieto. Un’amicizia che risale a quando avevamo i
calzoni corti, che solo la lontananza poi ha dilatato.
Gaspare, morto alla vigilia dei cento
anni, si prendeva cura del negozio. Lo ha fatto per lunghissimo tempo, da
diventare figura storica di piazza Duomo e dintorni: come lo erano – mi affido
alla memoria, chiedo scusa per le dimenticanze (chi può, mi dia una mano) -
Emiddio ‘a pumpinara che, lì vicino, vendeva il pesce; accanto alla
accattivante espoosizione di frutta e verdure di Giuseppe Buonocore, detto Peppe 'a pizzeria, che in seguito si spostò allo Spirito Santo; lo storico salumiere
Pittiasso (e poi il nipote Alfonso Della Monica); Giovanni Stinga, ‘o Surrentino
(tessuti); la signora Francese Colavolpe, nell'antica pasticceria ricca di
specchi e mobili raffinati, seduta alla cassa col micio in grembo; il
gioielliere Andrea Fusco, la figlia e il figlio Saverio; l’indimenticabile
Mofone, Alfonso Mostacciuolo, col suo bazar, dirimpetto al Banco di Napoli; il
fotografo Tommaso Piumelli; ‘O Pulveristo, Antonio Acampora, cavaliere e
coltivatore diretto (nonché consigliere comunale di rispetto) che gestiva
un’osteria all’inizio del supportico dei Ferrari; il salumiere Andrea Torre; il
giornalaio Andrea Savo, vera memoria storica della città, con le figliuole (che
mi consentivano tutte le mattine di fare rassegna stampa); ‘O Poerlo, Teodoro
Giunchiglia, ‘ncazzuso ma simpatico, inappuntabile fruttivendolo; Masaniello,
Luigi Gambardella, re indiscusso del pesce fresco; la signora Abbagnara Pagano,
che esponeva l'insegna Novità all'angolo della sciulia, e lì vicino la
bancarella del pesce di Paolillo: il profumiere Mario Barra; il
barbiere-chitarrista Peripere, di cui mi sfugge il nome; Nicolino De Stefano,
'o cafettiere, e le sue ineguagliabili granite di limone; l’orefice Antonio
Esposito; Adriana col suo bel negozio di scarpe e l’accento senese che non
aveva dimenticato, nonostante il matrimonio con un amalfitano doc, Nicola Savo.
Aveva rilevato il locale dove prima c'era la merceria di Elena Serretiello,
moglie di mio zio Gigino Nastri. E prima, molto prima, c'era la farmacia, pure
Nastri, dove fu architettato un delitto politico nel 1909, quando ad Amalfi si
contrastavano il partito delle giacchette e quello delle sciamberghe. Avrò modo
di trattarne se campo ancora un po'; l'attrezzato salone di barbiere e
parrucchiere di Gioacchino Serretiello, ci potevi fare pure il manicure; la
merceria di Sisina 'e Mundello a lato della banca; don Antonio Buonocore,
signore di stampo antico, che aveva la salumeria accanto all’ingresso del
seminario. La moglie, Ida Perez, signora elegante e gentile, era una cantante
dalla voce purissima. Il suo repertorio attingeva alle belle canzoni di Mimì
Lagrotta, altro personaggio che non dovrebbe scomparire dalla nostra memoria
collettiva; il pizzaiolo Andrea Buonocore (che la sera lanciava la chiama: E’
cavera ‘a pizza, ‘o pizzaiuolo!; Andrea Cimino, 'o direttore, e Antonio
Buonsostegni, colonne della pasticceria Pansa, che una nuova generazione delĺa
famiglia sta rilanciando a liveĺli altissimi (come faccio a non citare qui la fabbrica
di confetti, canditi e dolciumi vari lungo la via della cartera 'ranna e villa
Paradiso - 'o Chiano 'e Panza, paradiso dei limoni - al quale si accede
dall'artistico cancello, a lato di quella che era la casa dei miei nonni
materni? Allora, tempo di guerra e immediato dopoguerra, dava lavoro a molte
famiglie che curavano a domicilio l'incarto delle caramelle); il farmacista
Bonaventura Falcone, dove immancabilmente, se ti serviva un medico, trovavi ad
aspettarti il dottor Ferdinando Paolillo; Enrico Bastolla e la sua elegante
boutique; il tabaccaio Andrea Florio e il pasticciere Gaetano Amatruda (vero
masto della pastiera), all’uscita dalla piazza.
In piazza era anche la sede dell’Azienda
turismo, guidata dall'avvocato Leopoldo Fiorentino e diretta da Andrea
Colavolpe, persona squisitissima, anima d’artista, innamorato pazzo della sua
città. Non ho citato Nunzio Scoppetta, è ancora sulla breccia. Gli mando un
caro saluto.
La mia simpatia per Gaspare era
giustificata anche da un altro motivo. Aveva sposato un’affascinante,
dolcissima ragazza del mio quartiere: ‘e ‘ncoppa ‘e grare longhe, lungo la via
che conduce al Santuario della Madonna del Rosario. Ermelinda Imperato, figlia
di don Giovanni, imprenditore che ha fatto la storia della carta ad Amalfi. Io
ero piccolo quando si fidanzarono. Ogni volta che mi incontrava la signora
Ermelinda mi chiamava, come facevano a casa mia, col secondo nome, Nicola.
Sigismondo era troppo lungo. Con un nome
troppo lungo, sosteneva Massimo Troisi, un bambino “viene scostumato”.
© Sigismondo Nastri