Il mio intervento alla presentazione del Diario dalla prigionia
Mò t’ ‘o
ccont’
di Gennaro Brasiletti
Amalfi – salone Morelli di Palazzo San Benedetto
sabato 21 aprile 2018, ore 19.00
Avere nelle mani
questo diario, Mò t' 'o ccont' di Gennaro Brasiletti (edito da Terra del Sole), sfogliarne le pagine, mi procura una profonda emozione. Le sue testimonianze
dalla guerra, dalla prigionia, sono importanti, sono pagine di una storia non
ricostruita attraverso le cosiddette fonti, gli atti conservati negli archivi.
Questa è una storia scritta dal basso, autentica, vissuta in prima persona.
Chiamiamola pure microstoria, per essere più precisi, perché fatta di tanti
piccoli, preziosi tasselli, ma essi, messi insieme, organizzati armonicamente,
come qui è stato fatto, contribuiscono a comporre la Storia con la “S”
maiuscola.
Mi viene la pelle
d’oca pensando alla precarietà delle situazioni in cui Brasiletti ha potuto
scrivere, ai limiti di tempo e di spazio a disposizione, ai pericoli a cui era
esposto. "Anche se ancora pochi di noi sono testimoni – scriveva Mario
Rigoni Stern, scrittore ed ex deportato -, questo nostro passato non deve restare nell’oblio perché ora i nostri
ventri sono sazi e le case calde, perché abbiamo un letto pulito per dormire e
i nostri nipoti sorridono compassionevoli se ci vedono raccogliere e portare
alla bocca le briciole che rimangono sulla tovaglia o se mettiamo da parte un
pezzo di pane rimasto sulla tavola”.
Il diario può essere
un’agenda, un quaderno, una successione di fogli in cui si registrano
avvenimenti e impressioni personali. Magari appunti. Credo che tutti ci abbiamo
provato, dai tempi della scuola. Ed è una forma di scrittura che viene da
lontano, se è vero che si considerano diari i commentari di Senofonte, di Giulio Cesare, le stesse Confessioni
di sant’Agostino. Ci sono diari che
hanno interesse scientifico, filosofico, artistico, letterario.
Il diario di guerra,
di prigionia, è tutt’altra cosa: perché vi è trasposta, come in un
cardiogramma, l’esperienza drammatica vissuta. Ce ne sono tanti, che
hanno assunto forma di opere di grande interesse storico-letterario: cito
quelli di Pietro Jahier, Scipio Slataper, Emilio Lussu, Carlo Emilio
Gadda, Ardengo Soffici, dello
stesso Benito Mussolini (per quanto
riguarda la prima guerra mondiale); e poi di Mario Rigoni Stern, che ho appena ricordato, Carlo Alberto Carocci, Primo
Levi, Carlo Levi, Anna Frank (per ciò che riguarda la
dittatura fascista, il genocidio perpetrato dalla Germania nazista nei
confronti degli Ebrei, la seconda guerra mondiale)
Sembra dimostrato
che scrivere un diario abbia un impatto positivo sulla persona. Che aiuti a
superare momenti difficili, regolando le proprie emozioni. Lo sostiene uno
psicologo dell’università della California, Matthew Liebermann. Giusto, d’accordo. Ci mancherebbe! Ma una cosa
è scrivere un diario in condizioni normali, stando comodamente seduto in
poltrona o sul divano, altra cosa in quelle estreme provocate da peripezie,
sofferenze, paure.
L’esperienza della guerra,
della prigionia soprattutto, è così traumatica da riuscire a trasformare la
scrittura in uno strumento di sopravvivenza. Mettersi ad annotare
puntigliosamente quel che avviene giorno per giorno (per Brasiletti è
importante anche se piove o c’è il sole o fa freddo) è come avere
consapevolezza della propria esistenza
in vita: per trovare rifugio nel pensiero degli affetti familiari, che è sempre
denso di nostalgia e rimpianto.
La particolarità del
diario, nel caso di Brasiletti, è che vi
annota situazioni, eventi, sensazioni, non
a posteriori, sulla base di quel che gli è rimasto nella mente, ma –
come si dice oggi - in tempo reale. E
non c’è neppure bisogno che sia scritto correttamente, mettendo punti e virgole
al posto giusto. Perché non si tratta di un esercizio letterario, ha valore semplicemente di memoria. Se mai, documento lo diventa col tempo,
quando – come ci tocca di fare questa sera - viene consegnato alla storia di un
intero paese, dato che la sua vicenda personale si inserisce in una situazione
di più vaste proporzioni, tale da coinvolgere la coscienza collettiva.
Tra i diari di
guerra, riferiti al secondo conflitto mondiale,
che hanno valenza letteraria – ne
ho citato alcuni - il più famoso è certamente
quello di Anna Frank. La
protagonista, una ragazzina di famiglia ebraica, immaginando di scrivere
lettere a un'amica, racconta giorno per giorno gli avvenimenti accaduti
nell’alloggio segreto di Amsterdam, dove è nascosta insieme alla sua famiglia
per sfuggire alle persecuzioni naziste contro gli Ebrei. Due anni di isolamento
(dal 1942 al 1944), poi viene scoperta e deportata nel campo di concentramento
di Bergen-Belsen, in Germania. Vi muore il 12 marzo 1945. Il diario, ritrovato
e pubblicato a guerra finita, commosse il mondo. Lo commuove ancora.
Lo stesso Mussolini
– scusatemi la citazione - scrisse un diario, da combattente, durante la prima
guerra mondiale. Poche notazioni, essenziali. Esempio: “Ore
quindici. Raffica di artiglieria austriaca. Crepitio di proiettili. Schianto di
rami. Turbine di schegge. Un grosso ramo, stroncato da una granata, si è
abbattuto sul mio riparo. Ci sono due feriti nella mia compagnia. Passa un
morto del 24° battaglione. Un altro morto degli alpini. Il bombardamento è
finito. È durato un’ora. I bersaglieri escono dai ripari. Si canta.” Giusto
per completezza d’informazioni, aggiungo che il futuro duce del fascismo rimase
ferito in una esercitazione, il 23 febbraio 1917. Operato in un ospedale da
campo a Ronchi, non tornò in linea. Trascorse una lunga convalescenza. Dove?
qui ad Amalfi.
Bastano poche righe
a volte per condensare gli avvenimenti di un’intera giornata. Come Gennaro Brasiletti sia riuscito a farlo,
a mio avviso, ha dell’incredibile. Ma lo ha fatto, credo, con piena
consapevolezza, già pensando al valore che la sua testimonianza avrebbe avuto
in futuro, altrimenti non si sarebbe preoccupato di raccomandare di non
censurare il suo scritto.
E’ una vicenda, la
sua, che per molti aspetti rassomiglia a quella di Angelino Petraglia, un signore di Piaggine, autore di un testo
pubblicato col titolo “Riflessioni sulla seconda guerra mondiale e ricordi di
prigionia”. Nella premessa, Petraglia scrive: “Durante il mio internamento in Germania annotavo, di tanto in tanto,
su pezzettini di carta, i miei pensieri e le mie impressioni su quanto accadeva
intorno a me e sul tenore di vita condotto da noi prigionieri. Come facessi a
scrivere quelle note, non lo so, date le continue perquisizioni e l'assidua
vigilanza cui eravamo sottoposti.” Più o meno capitava così anche a Gennaro Brasiletti. E non “di tanto in
tanto” ma con una cadenza pressoché quotidiana. Solo che, sulla base
degli appunti raccolti, Petraglia ci ha costruito un racconto più articolato.
Ma sto parlando di una persona con un diverso bagaglio culturale, mentre il
nostro confessa che non è un dotto, ha solo la terza classe elementare. Nella
società anteguerra, con un livello altissimo di analfabetismo, era già tanto.
Ecco perché il suo impegno è ancora più commendevole.
Torno all’argomento
di questa mia chiacchierata. Dal 1984 a Pieve Santo Stefano, in Toscana, ad
iniziativa di un giornalista, Stefano
Tutino, è stato creato un “piccolo museo del diario” dove si
raccoglie e conserva memoria. Le storie di persone, persone comuni voglio dire,
che hanno lasciato una traccia di sé, trovano accoglienza in questo luogo dove
passato e futuro si fondono, dove anime, sensibilità differenti convivono
pacificamente.
Anche a Genova,
nell’ambito del Dipartimento Scienze della Formazione dell’Università, è stato
creato un Archivio della scrittura popolare che ha lo scopo di raccogliere, catalogare e
studiare esempi di scrittura privata: in particolare, epistolari, diari e
memorie di emigranti, soldati, prigionieri. In questo caso, con finalità
eminentemente scientifiche. Documenti fondamentali per lo studio degli eventi,
per la loro ricostruzione. Non occorre neppure che chi scrive un diario di
guerra e di prigionia abbia fatto chissà che di straordinario, è importante che
ne sia stato testimone attento e attendibile.
Gennaro Brasiletti lo è stato, nella sua semplicità, nel suo candore, nel suo spirito di
sopportazione di tante traversie, nel suo appellarsi alla fede: testimone, come dicevo, attento e
attendibile.
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