Quando dico che il nostro è un
paese senza memoria vien fuori sempre qualcuno che tenta di contraddirmi. Ma è
proprio così. Dieci anni fa, il 21
febbraio 2007, morì a Roma, all’età di ottantuno anni, Gaetano Amendola. La
ricorrenza è passata sotto silenzio. Come se la città avesse voluto cancellarlo
dalla memoria. Eppure egli è stato, con Francesco Amodio, Ruggiero Francese,
Plinio Amendola, un protagonista di rilievo della storia amalfitana della
seconda metà del novecento. Lo scrissi subito dopo la sua scomparsa, lo ripeto
oggi.
Gli ero amico, ma non sono stato
un suo seguace, un suo sostenitore. Ne ho pure pagato le conseguenze, sulla mia
pelle. Come quando, eletto lui a capo dell’amministrazione comunale, la mattina
successiva fui allontanato da palazzo san Benedetto con un ordine di servizio. Non
ne feci un dramma: capivo di essere la vittima sacrificale dei giochi di potere
che avevano portato alla defenestrazione del sindaco Amodio, del
quale ero segretario. La politica è una scala: si sale e si scende. “Siate gentili con le
persone che incontrate salendo – ricorda un cartello nell’Hotel Rand di New
York -, perché tornerete a incontrarle scendendo”.
Conservo tra le mie carte una lettera che mi scrisse nel 1959,
in cui dichiarava amore incondizionato per la sua città. Non l'ho mai dubitato. Anche se, a rileggerla adesso, quell'augurio "di poter fare ancora qualcosa per l'avvenire" mi sembra quasi riferito a ciò che successe negli anni successivi.
Gaetano Amendola, dicevo, è stato, per Amalfi, uno dei
personaggi più importanti della seconda metà del novecento. Conosceva le stanze
del potere come pochi altri. Le aveva frequentate da quando, giovanissimo,
s’era trasferito nella capitale per andare a lavorare al Ministero dei lavori
pubblici. Gennaro Cassiani, deputato calabrese, divenuto ministro della Marina
Mercantile, lo chiamò alla sua segreteria. Poi Fernando Tambroni lo volle con
sé come segretario particolare: allo stesso dicastero di piazza della Minerva (1953-55),
all’Interno (1955-59), al Bilancio (1959-60), alla Presidenza del Consiglio
(1960). Nel 1959 il politico marchigiano, che aveva messo su un governo con
l’appoggio determinante del Msi, fu costretto a dimettersi in seguito a
violenti moti di piazza.
Uscito di scena Tambroni, Gaetano Amendola legò i suoi destini a
quelli di Arnaldo Forlani, altro marchigiano, giunto in parlamento nel 1958 e
avviato a una vera e propria escalation: ministro delle Partecipazioni statali,
della Difesa, degli Affari esteri, Vice Presidente del Consiglio dei ministri,
Capo del governo, Segretario politico della Dc. Poi le inchieste su
tangentopoli travolsero, col partito, anche il suo leader. E lo stesso Gaetano
Amendola non ne uscì indenne. Ma questa è un’altra storia.
All’inizio degli anni
sessanta Amalfi era una roccaforte dello Scudo crociato, stretta intorno al
sindaco Francesco Amodio, che dal 1958 poteva fregiarsi del titolo di
onorevole, essendo stato eletto deputato al parlamento. Gaetano Amendola, suo
figlioccio (di cresima), sollecitato e mal consigliato da alcuni notabili locali
- Nicola Milano, Pietro De Luca, Gerardo Del Pizzo -, decise di impegnarsi in
prima persona nella vita amministrativa della città. Non come trait d’union, ma
come elemento di rottura. Di conseguenza, la maggioranza consiliare si spaccò e
ad Amodio non rimase che farsi da parte. Amendola gli subentrò nella carica di
primo cittadino per un quadriennio (dal 1961 al 1965). Terminata quella
esperienza si aprì un periodo di instabilità amministrativa, che ridimensionò
la Dc e consegnò la guida del comune a un esponente autorevole del Partito
comunista, l’onorevole Tommaso Biamonte.
Gaetano Amendola fu anche
presidente della Camera di Commercio di Salerno.
Sigismondo Nastri
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