Nella
cantina di Antonio ‘e Pannone, all’angolo della piazzetta,
dov’è la fontana d’ ‘a Capa ‘e ciuccio,
abituale luogo di ritrovo di gente comune, si potevano gustare tutte le
specialità culinarie della tradizione contadina, preparate – verrebbe da dire –
come comanda Iddio. Semplici, genuine, molto appetibili. Una sera, al tavolo
collocato accanto alla porta d’ingresso,
tra la salita D’Angora e la lunga stréttola
che proprio lì si apre, correndo parallela alla via principale, c’erano tre
amici alle prese con un ruoto di stocco e patane, accompagnato da una
grossa giara di vino paesano, proveniente dai vigneti soleggiati della Valle
dei Mulini, di Pontone e di Pogerola.
Quando
riempì il proprio bicchiere, Michele si accorse che in quel vino – fresco di
vendemmia ̶ c’era qualche moscerino: drosophila melanogaster, così lo
definisce il vocabolario Treccani, piccolo, di colore ferrugineo, con le
ali grigiastre. Abitualmente attratto dal mosto in fermentazione. Michele si riempì il bicchiere e ne vide un
paio intrappolati a galla, che battevano le alette nel vano tentativo di
liberarsi. Non si perse d’animo. La pietanza era particolarmente piccante. In
cucina impiegavano puparuole forte senza
risparmio. Ma ̶ questo è certo
̶ egli non sarebbe riuscito a spegnere con l’acqua il fuoco che gli si
era acceso tra la bocca e lo stomaco.
D’altronde l’oste lo ripeteva spesso: «Quanno se magna, s’adda vévere vino. Ll’acqua fa
‘nfracetà’ ‘e bastemiente a mare». Michele guardò il bicchiere con
attenzione, forse anche con commiserazione nei confronti dei piccolissimi
insetti, lo annusò per sentirne il
profumo e, prima di tracannarlo tutto d’un fiato, sorridendo beffardo ai
commensali, con la solennità di un brindisi disse: «Io vi saluto, nobili cavalieri dell’apocalisse: / ‘nzerrate ‘e scelle
ca avite ‘a fà’ cammino». Si asciugò ‘e
mustacce col tovagliolo e riprese a mangiare.
© Sigismondo Nastri (da: Racconti dalla Costa d'Amalfi)
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