Amalfi, venerdì 2 giugno 2017, ore 19.30
Antico Arsenale
Cerimonia di intitolazione a Gaetano Afeltra
del Supportico Ferrari
IL MIO INTERVENTO IN RICORDO
DI GAETANO AFELTRA
Sono grato al
sindaco Daniele Milano e all’assessora Enza Cobalto per avermi concesso la possibilità
di portare, in questa circostanza così importante per tutti noi, la mia
testimonianza. Ma più ancora li
ringrazio per aver voluto esaudire un voto di tanti concittadini: quello di
intitolare il supportico Ferrari a Gaetano Afeltra.
“Mio padre ti ha
voluto bene” mi ha scritto in un messaggio Maddalena Afeltra. E’ l’unico titolo
che mi riconosco per essere qui. Anche se devo ricordare, per la storia, che questa
idea partì proprio da me, subito dopo la scomparsa di don Gaetano, d’intesa con
Enzo Colavolpe e Gigino de Stefano, due amici carissimi, che tanto hanno dato
ad Amalfi e che pure ci hanno lasciati.
In
Desiderare la donna d’altri, a pagina
7, leggo: «C’è un punto profondo in cui la vita di ognuno comincia, dove si
riconosce per quella che è: questo punto può essere un luogo. Quando ancora mi
chiedono di dove sono, rispondo con una specie di fastidio: “Sono di Amalfi”.
Dovunque e da tutti mi sento dire: “Beato lei, che fortunato!». Gaetano
Afeltra, premiato e celebrato in una mostra in galleria per aver fatto
grande Milano, non ha mai smesso, nella sua lunga vita, pur standone lontano,
di avere Amalfi nel cuore.
Non
farò invasione di campo. Non parlerò del giornalista e dello scrittore. Davanti
al direttore Ferruccio de Bortoli, e a Ottavio Lucarelli, mio presidente,
non me lo posso permettere. Non parlerò dei deliziosi elzeviri, finiti nei
libri, in cui il tema ricorrente è Amalfi: con la storia, le storie, i riti, le tradizioni. I
personaggi, alcuni dei quali avevano accompagnato la crescita umana di Gaetano Afeltra: da Milord,
il calzolaio, ad Angelo Tamburrano, giusto per fare un
esempio. Dalle fantesche al podestà Francesco
Gargano, che favorì la fuga amorosa
del gerarca Attilio Teruzzi per
ottenere il finanziamento dell’acquedotto; fino all’onorevole Francesco Amodio, uscito dalla vita
politica meno ricco di quanto lo era prima, e alla sorella, la signorina Nina, perfetta padrona di
casa, instancabile dispensatrice di caffè e pasticcini.
Voglio
parlare di un Afeltra per così dire minore.
Compaesano se me lo consentite. Di don
Gaetano, come noi lo chiamavamo ̶ in
una terra in cui il “don” indica deferenza, rispetto ̶ , amato da tutti, che ad Amalfi veniva per
combattere lo stress, le tensioni accumulate nel suo lavoro. Non del “Gaetanine” come lo chiamavano a
Milano, di cui dice Giorgio Bocca
nel libro “E’ la stampa, bellezza!”.
A
me interessa delineare la figura di Don
Gaetano, il rapporto con la sua città. Tenuto saldo anche quando,
sentendosi tradito, ne rimase lontano, per lunghissimi anni. Inutile tornare su
quel che avvenne allora: ormai è tutto archiviato. Ricordo solo la data di
morte del fratello don Andrea: 11
novembre 1979.
Ho
ancora vivo, nella mente, l’incontro affettuoso che ebbi con don Gaetano al Circolo della stampa, nella Villa
comunale, a Napoli, dopo che era stato ospite dell’Università per una
conferenza alla facoltà di lettere. E s’era incontrato col suo amico professore
Mario Condorelli e signora. C’erano
con me Umberto Belpedio e mio figlio
Antonio.
Ma,
ancora di più, mi torna nella memoria la
gioia per il suo ritorno ad Amalfi, dopo un lungo volontario esilio. Mi affido
al racconto di Gianfranco
Coppola, giornalista Rai: «Una
mattina di profumata primavera del ’95 – scrisse – Gaetano Afeltra decise di accogliere gli inviti-perdono di Bruno Pacileo (all’epoca sindaco di
Amalfi), di Carlo De Luca e soprattutto di Sigismondo Nastri, collaboratore del
Roma e memoria storica della Costa. Così chiese all’autista che lo aveva
scorazzato per Napoli dopo un convegno di prendere la A3, uscita Vietri sul
Mare. Non disse una parola, fino ad Amalfi. Dove, appena arrivato, pianse senza
farsi vedere fingendo di dover scappare subito in bagno. Fu festa grande».
Nella
prima giovinezza di Gaetano Afeltra
entrano alcune figure di spicco: Angelo
Di Salvio, scrittore lucido e lungimirante, che egli definisce in una
lettera (che conservo) il suo primo “maestro”.
Di Salvio fondò una rivista, “Sirenide”,
ci scriveva anche Cesare Afeltra. Dopo
il primo numero, fu bloccata. Nell’editoriale c’era l’impegno di combattere in
tutti i modi il campanile, male endemico
della Costiera. Un tema ancora scottante.
E
poi: Mimisca,
come si firmava, cioè Mimì Scannapieco
– nonno dell’attuale vice presidente della Banca
Europea degli Investimenti, Dario
– che lo accompagnò, ragazzo, da Carlo
Nazzaro per fargli avere la corrispondenza del Roma; e Matteo Incagliati,
critico musicale del Giornale d’Italia,
amico del padre, segretario comunale, abituale frequentatore di Amalfi, che gli inculcò la passione per il giornalismo. Lo
aveva già fatto col fratello Cesare.
Che, aveva iniziato una proficua esperienza a “L’Azione democratica”, battagliero settimanale salernitano.
L’Azione Democratica era fatto
ad Amalfi, dove avevano sede la direzione e l’amministrazione ed era stampato a
Salerno. Dava ampio spazio alla Costiera, in particolare a quanto avveniva ad
Amalfi. La prima pagina era dedicata alla politica nazionale. Quando Cesare Afeltra fu chiamato ad assolvere
il servizio militare di leva in Marina, con destinazione a Civitavecchia, poi a
Roma, al Ministero della Marina, la sua attività giornalistica diventò più
intensa. Cominciò a mandare al giornale articoli politici dal taglio più
deciso, cronache parlamentari, che assunsero il titolo di “Lettera da Roma”.
Incagliati
lo aveva intanto presentato ad Alberto
Bergamini che, apprezzatene le qualità, lo assunse al Giornale d’Italia.
Milano
entra in questa mia testimonianza solo per un episodio, riferito al 2003. Mi
capitò di partecipare ̶ lo feci
solo per sfizio ̶ a un concorso letterario promosso dal Lions Milano Duomo con una poesia in vernacolo.
Vi descrivevo le nostre chiese, poste nei vicoli e in cima a lunghe file di
gradini che, se li fai in salita, ci trovi il cielo, se li percorri in discesa
arrivi al mare. La dedica recitava. “A
Gaetano Afeltra, il più illustre degli amalfitani”. Vinsi una medaglia
d’oro che mi fu consegnata nel salone di rappresentanza della Banca Industria e Commercio in via della
Moscova. La giuria era presieduta da Giancarla
Re Mursia. Don Gaetano mi mandò un telegramma: “Ricevo molti complimenti per la poesia che mi ha dedicata”. Ne fu
contento.
C’è
qualche episodio che mi preme raccontare. Nell’estate del 1955 (molti di voi
non erano ancora nati), Il Giornale, vecchio quotidiano liberale
napoletano, nella pagina di Salerno, curata allora da Aldo Falivena, pubblicò le caricature dei “Componenti la stampa amalfitana” disegnate da Ignazio Lucibello (altra nostra gloria, ahimè, dimenticata!). Di
quel gruppo sono l’unico superstite. Eravamo
giovanissimi ̶ Filippo
Iovieno, venuto a mancare presto, purtroppo, Gigino de Stefano, io –
presi dalla smania di fare i giornalisti. E c’erano alcuni notabili – il
libraio Antonio Savo; Alfonso Di Salvio, impiegato al Comune;
l’avvocato Alfonso Iovane – , per i
quali il ruolo di corrispondente era inteso più o meno come un titolo
onorifico. Al massimo, mandavano dieci fuorisacco
all’anno con notizie di battesimi, matrimoni, necrologi.
Andavamo
a caccia di notizie, persino le più spicciole. Se proprio non ce n’erano –
faccio un esempio -– cercavamo di
costruircele.
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Insieme con Ferruccio de Bortoli per ricordare Gaetano Afeltra |
Il
direttore de Bortoli si sorprenderà
se dico che, tra i “Componenti la Stampa
amalfitana”, c’era il corrispondente del Corriere della sera: Ferdinando
Gambardella, compariello, ma
anche l’amico più caro di don Gaetano, inseparabile da lui quando stava ad
Amalfi. La pagina del giornale, che ho qui, lo documenta. Qualcuno potrebbe
domandare: Che ci faceva un
corrispondente del più grande quotidiano italiano in un paese ̶ perché
un paese era all’epoca ̶ come Amalfi? Ferdinando aveva il compito di
telefonargli tutte le sere, utilizzando quella famosa chiamata “r”, che esisteva a quel tempo, in
partenza del giornale. Sempre alla stessa ora. Andavamo in gruppo al centralino
telefonico, sullo stradone. Il collegamento iniziava con una formula che era
sempre la stessa: “Pronto Corsera, sono
Gambardella da Amalfi, mi passa cortesemente il dottor Afeltra?”. Lui voleva
che Ferdinando gli riferisse i fatti del giorno, le curiosità, gli ‘nciuci. Di tanto in tanto, qualche
notizia da Amalfi usciva sul Corriere,
firmata da Ferdinando Gambardella. Scrivendo
per una testata meno importanti, confesso, lo invidiavo.
A
Milano don Gaetano si avvaleva anche dei rapporti
che gli facevano alcuni amalfitani, trapiantati lì, che orbitavano intorno a
lui. Ne cito due, il cui ricordo mi è molto caro: Pierino Florio, direttore della biblioteca Sormani, e Mario
Laudano, per noi Franzosi, che lavorava alla Gazzetta dello sport.
Quando
veniva ad Amalfi, per il soggiorno estivo o solo per pochi giorni, don Gaetano aveva
due punti fissi di riferimento: la libreria di Antonio Savo, passata al figlio Bonaventura, al quale voleva un gran bene, che gli faceva arrivare
di primo mattino i giornali a casa. E il bar
Savoia, di Antonio Amatruda. Sempre lo stesso tavolo, posto ad angolo, in
posizione panoramica sulla piazza e
sullo stradone. Quasi come il periscopio di un sommergibile. Don Gaetano conosceva
tutti, sapeva tutto di tutti. E se non riconosceva qualcuno, chiedeva chi
fosse. O magari si faceva spiegare di chi fosse figlio o nipote.
All’inizio
del 1977 – ho ritrovato questa notizia in una cronaca di Gigino de Stefano ̶ gli fu segnalato che i mosaici della
facciata del duomo si stavano staccando. Venne da Milano col ministro per i
Beni culturali Mario Pedini per un
sopralluogo. E subito furono disposti i lavori di risanamento. Pare che il problema si stia riproponendo:
peccato che non c’è più lui!
La
sua giornata scorreva sempre uguale: tra la lettura dei giornali, le
telefonate, la discesa sulla spiaggia, quando il sole non era alto, in calzoni
corti, il capo coperto da un cappello bianco di tela (il mare no, perché non
aveva mai imparato a nuotare), e, la
sera, la sosta al bar Savoia. A conversare, salutare, stringere mani, tra una
telefonata e l’altra. Se stava di genio –
mi ci sono trovato un paio di volte ̶ faceva chiamare Massimiliano Crosilla, un posteggiatore esule istriano che s’era
ben integrato nella realtà amalfitana, e lo conduceva, solo o in compagnia del
partner, ‘a Paloff, barbiere-chitarrista, sul molo Pennello a suonare vecchie melodie napoletane. Quelle che più
gli piacevano. E si metteva a cantare. Noi con lui, a fargli corona. E si
divertiva, negli intervalli, a sfruculiare
con un’ironia sottile e pungente il malcapitato Crosilla.
A
volte mi telefonava, anche da Milano, per affidarmi qualche incombenza. Era un
segno tangibile di predilezione. Mi sento un privilegiato – scrissi il giorno
della sua dipartita ̶ per aver goduto della stima e della
benevolenza di don Gaetano. Sapendo la severità nei giudizi, conservo come
preziose reliquie le sue lettere di apprezzamento: “mi piace il tuo modo di scrivere, la chiarezza del linguaggio”.
Oppure: “sapevo che eri bravo ma gli
articoli che ha scritto da Pavia me ne hanno dato la prova”. O ancora: “Ho visto l’onorevole Amodio e abbiamo
parlato della tua bravura giornalistica”. Per me valgono come un diploma di
laurea.
Quando
morì la mamma, la signora Maddalena,
mi volle per due giorni a casa sua (chiedendo il piacere all’onorevole Amodio, del quale ero segretario)
perché lo aiutassi a rispondere alla montagna di messaggi di condoglianze. Mi
capitarono tra le mani quelli del Papa e del presidente della Repubblica (Giuseppe Saragat).
Nel
venticinquennale della morte del fratello monsignore, l’indimenticabile don Andrea, mi chiese di organizzare
una rievocazione solenne: che avvenne con la messa in cattedrale e la
pubblicazione di un libretto, stampato da Peppino
De Luca, su carta a mano della cartiera
Amatruda, con le testimonianze di don
Andrea Colavolpe, Gigino de Stefano,
del preside Andrea Maiorino. Oltre
alla mia, naturalmente. Ci riempì di elogi e di ringraziamenti. Pochi giorni
dopo, la perdita della moglie, la signora
Adriana, lo gettò in uno sconforto dal quale non si riprese più.
Ritornando
al bar Savoia, ricordo che Tonino Amatruda, per evitargli il
fastidio di alzarsi, aveva fatto allungare il filo del telefono fino al tavolo
di don Gaetano. Così poteva star comodo. A quel tavolo ci trovavamo spesso
anche noi: da Umberto Belpedio, per
lunghi anni inviato permanente del Roma
in Costiera, don Gaetano voleva ragguagli sulla vita mondana, sulla high society che allora popolava la
Costa; con Camillo Marino, critico cinematografico,
fondatore con Pasolini del Premio Laceno d’oro, il discorso
inevitabilmente cadeva su Roberto
Rossellini e i film girati sulla costa:
La macchina ammazzacattivi, Paisà, Viaggio in Italia, L’amore.
E quindi su Fellini, la Bergman, la Magnani. Con me e Gigino de
Stefano parlava di politica locale o degli episodi di cronaca di cui
c’eravamo occupati.
Quando
Patrizia Rusconi, nel 1989, gli
chiese un appuntamento per intervistarlo, don Gaetano le rispose: «Per prima cosa le offro un caffè al bar
Savoia e mi trovo una scusa per non resistere al profumo dei dolci e alle
scorzette candite fatte con i nostri agrumi che sono i migliori del mondo». In un’altra occasione dichiarò a Luciana Boldrighi Paroli che a quel
tavolo, con Dino Buzzati, aveva scritto
“Positano darà la luce al mondo” e con Vitaliano
Brancati gli era venuta l’idea di quell’altro racconto delizioso, “Spaghetti
all’acqua di mare”. Anche la prima pagina a colori del Giorno diceva che era nata qui,
alle quattro della mattina, in collegamento telefonico con Milano. Quasi
ad avvalorare una sentenza del Montesquieu:
«Il caffè è l’unico luogo dove il
discorso crea la realtà, dove nascono piani giganteschi, sogni utopistici e
congiure anarchiche, senza che si debba lasciare la propria sedia».
Sigismondo Nastri