Maiori, giovedì 29 dicembre 2016
ore 18.00
Palazzo Mezzacapo
Salone degli affreschi
ALFONSO GATTO E
LA COSTIERA AMALFITANA
Poco
dopo la dolorosa scomparsa di Alfonso
Gatto, avvenuta l’8 marzo 1976 a causa di un incidente stradale dalle parti
di Orbetello, il professore Francesco
D’Episcopo, allora giovanissimo, e Pietro Borraro,
direttore della Biblioteca provinciale di Salerno, organizzarono un importante
convegno di studi, che si svolse a Salerno, a Maiori e ad Amalfi. Vi
parteciparono poeti, cattedratici, critici letterari di grande spessore. Gli
atti sono consacrati in un ponderoso volume, edito a Galatina nel 1980, dal
titolo “Stratigrafia di un poeta”. Io
ero, a quel tempo, consigliere di amministrazione dell’Azienda di soggiorno e turismo di Amalfi. In occasione della
sessione dei lavori, in programma nel salone Morelli del palazzo municipale, il
presidente, Plinio Amendola, mi
affidò il compito di intervenire in sua vece, tratteggiando i legami di Gatto
con la Costiera.
Dopo
quarant’anni mi tocca di riprendere l’argomento. Lo faccio volentieri,
aggiungendo qualche elemento in più sul mio personale rapporto col poeta.
Parto
da un dato che viene da lontano. Avevo
undici anni. Frequentavo la seconda media ad Amalfi. In un’antologia – non ne
ricordo il titolo – trovai una poesia di Alfonso Gatto: “Ai monti di
Trento”. Mi colpirono i versi dedicati alla madre: Penso a mia madre sola con la luna / nella
notte d'ottobre, ancora estiva / la brezza muove i suoi capelli, imbruna /
sulle case d'intorno. / Così la chiara spera / dei monti a lungo ammalia / nei
pascoli la sera. / Odora già l'Italia / di polvere e di rose. / Era la luna
ancora effusa al giorno, / mia madre a lungo sul mio capo pose / le mani e
disse: «vedi, a noi d'intorno / il tempo s'è fermato...». / Bei monti della sera / azzurro è il mio
passato.
Andai a
leggere le poche note biografiche in calce alla pagina. E scoprii che era nato
a Salerno il 17 luglio 1909. Aveva la stessa età di mio padre (cinque mesi in
più).
Cominciai a
comprare i suoi libri. Li leggevo con avidità.
Quando Gatto
entrò nella redazione di Epoca,
provai una grande gioia, perché quel rotocalco lo acquistavo regolarmente ogni
settimana. Fu così che scoprii, un giorno, tra le risposte ai lettori, una sua
bellissima descrizione di Erchie, che a quel tempo era un luogo assolutamente
ignorato. Persino da chi lo attraversava per venire a Maiori o ad Amalfi.
Gatto
raccontava che, da ragazzo, ci si recava in barca da Salerno.
(Faccio una parentesi: una volta m’è
capitato di vedere, a casa di mio suocero, una foto di gruppo scattata proprio
sulla spiaggia di Erchie. Con il poeta e altri amici c’era anche mio suocero).
“In quell’insenatura – scrisse su Epoca –, il mondo taceva come per incanto, la
spiaggia di ghiaia bianca, l’acqua del mare verdissima e chiara sugli arenili.
Poche voci tra le pergole dei giardini d’agrumi”. Ricordava “una piccola osteria, una stanza, in fondo
alla valletta verde dell’insenatura, sotto lo strapiombo della strada costiera.
[…] una piccola osteria, una stanza, in
fondo alla valletta verde dell’insenatura, sotto lo strapiombo della strada
costiera. C’era pronto un piatto di aguglie fritte, quei pesci lunghi col becco
e la spina verdissima, tenuto al fresco con l’aceto e la mentuccia. Ritornavamo
sulla spiaggia, infilavamo la bottiglia nella ghiaia dove batteva la maretta.
Mangiavamo con le mani quel pesce odoroso e silvestre, bevevamo quel vino
asprigno. Eravamo felici, parlando delle nostre speranze, dei nostri timidi
amori. La notte rimaneva sempre chiara. Bevendo e bevendo, parlando e parlando,
una notte capitò di addormentarci. Ci risvegliammo che l’aurora tingeva il
cielo di rosso. L’oste, prima di andare a letto, ci aveva coperto col tappeto
dell’unico tavolo della sua osteria”.
A rileggere il
brano, sessant’anni dopo, me lo immagino ancora lì, legato a un gozzo
parcheggiato su viscide falanghe, come Ulisse all’albero della nave, con le
sirene intorno che lo invitano, con un canto irresistibile e maliardo, a non
partire.
Alfonso
Gatto lo avevo incrociato qualche volta, con timidezza mista a curiosità, ma
anche con la venerazione con cui si guarda a un personaggio di grande rilievo, in
occasione delle sue venute a Minori con il giornalista Aldo Falivena, lo scrittore e critico d’arte Enrico Castaldi, l’urologo Bruno
Fontana, il gallerista Lelio
Schiavone e qualche altro amico, a raggiungere il pittore Mario Carotenuto che si era insediato in
una casetta alla fine del lungomare, quasi al limite della scogliera, oppure Giannino Di Lieto, anch’egli poeta, che
gli organizzava incontri stimolanti con i ragazzini della scuola. O, magari, Carminuccio Ruocco, l’antiquario che
aveva bottega proprio sotto il balconcino di Carotenuto.
Tutto qui.
Non m’era mai capitato di scambiare una parola con lui.
Avvenne più
tardi: il 9 ottobre del 1966, ad Amalfi, nell’Arsenale, quando si tenne un
recital delle sue liriche. Lo so di preciso, perché me lo segnai su un’agendina
che ancora conservo. Ci scambiammo qualche banale frase di circostanza.
Nell’estate
del 1967, all’inizio di agosto, mi ci trovai di fronte una sera, nella sala
interna del Gran Caffè ad Amalfi. Era in compagnia del solito gruppo di amici ai
quali s’era aggiunto l’avvocato amalfitano Alfonso
Iovane, suo vecchio compagno di banco al liceo. L’avvocato, appena mi vide
entrare (ero spinto lì dalla curiosità del cronista), m’invitò ad avvicinarmi.
Poi, rivolto a Gatto, disse: “Alfonso, ti
presento Sigismondo Nastri, corrispondente del Tempo. Scrive anche poesie.
Perché non gliele guardi e gli dai qualche consiglio?”. Mi feci rosso dalla
vergogna. Il sudore cominciò a colarmi addosso a rivoli dal volto. E non per il
caldo. L’avvocato Iovane mi stimava, anzi mi voleva bene, al punto che si era
dimesso da corrispondente del quotidiano romano per farmi subentrare al suo
posto. Non smetterò mai di essergli riconoscente.
Alfonso
Gatto rispose senza rifletterci un istante: “Io
ho preso casa a Conca dei Marini, vicino alla chiesa di san Pancrazio. Ti
aspetto domani pomeriggio”.
Il giorno
dopo, 7 agosto, era un lunedì, se non erro, arrivai tra le sedici e trenta e le
diciassette. Stava già ad aspettarmi. Rimasi con lui fino all’imbrunire. Avevo
portato la cartella contenente le mie poesie, o presunte tali, battute con
buona cura a macchina. Gli dissi che mi sarebbe piaciuto pubblicarle. Volevo
lasciar traccia di una cotta che m’ero preso dieci o dodici anni prima, neppure
corrisposto, per una ragazza. La cosa lo incuriosì. Le lesse con attenzione, una
per una, commentandole: questa sì, questa
no. E dividendole in due blocchi. Il volumetto “Acquamorta”, edito da Rebellato tre anni dopo, prese corpo quel
pomeriggio. Nacque da quella selezione.
Eravamo
seduti a un tavolo, sul quale Gatto aveva poggiato una bottiglia di whisky e
due bicchierini. Io non avevo dimestichezza con i superalcolici. Mi toccò di
berne almeno tre o quattro volte.
Ogni tanto
si alzava e, affacciato al balcone, mi faceva segno di seguirlo. Mi parlava del
paesaggio della costiera, che adorava, della linea impercettibile
dell’orizzonte che separava l’azzurro del cielo da quello del mare, mi
manifestava il suo amore per gli ulivi, alberi “di antica povertà”, che vedevamo parati nel terreno scosceso,
proprio davanti a noi. “Gli ulivi del mare, foglia / di
grigio-verde-argento…” come
poi li ho trovati descritti in una sua poesia.
Incontrai
ancora Gatto quando accettò di presiedere la giuria di un premio letterario,
promosso dall’Azienda turismo di Amalfi: premio che però non ebbe seguito; e
quando dettò commosse parole, incise nel marmo accanto all’ingresso dell’hotel
Cappuccini, ultimo omaggio di Amalfi Salvatore Quasimodo.
Torno al
tema di questo mio intervento. I legami di Alfonso Gatto con la nostra terra
sono testimoniati dalle sue frequentazioni e dalla sua poesia: le Rime di viaggio per la terra dipinta,
soprattutto. Penso alla emozione – la sua e quella che trasmette a noi lettori
– del viaggio in Costiera:
La strada che da Vietri a Capodorso
a Minori, ad Amalfi sale e scende
verso il mare di Conca e di Furore
è strada di montagna: vi s’arrende
la luce che nel trarla dosso a dosso
ai suoi spicchi costrutti trova il fiore
del lastrico deserto, la ginestra.
E l’ombra passa a approfondire il verso
dei suoi displuvi, l’onda dei tornanti
alle case di vetta: una finestra
dai vetri d’alba s’apre per l’oriente
alla breva serale.
Calma fragranza, il sonno nel riverso
meriggio è già l’amore,
un frascheggio di pergole di scale
e di voci passanti,
il fumo di chi vive col suo niente
una giornata d’aria.
Oppure:
Odorava di ragia, di fragaglia,
la costa di Cetara e d’Erchie sale
nella memoria, tesse i muri, impaglia
le pergole di agrumi: per le scale
dei monti svetta il bianco delle case.
O alla
suggestiva esplorazione del paesaggio di case e di terrazze a sghembo, che ad
Atrani si confondono con le cupole della Maddalena.
Dall’entro della costa all’ampia
svolta,
verde di casa rosa Atrani bianca,
città d’un tempo e d’ogni giorno è colta
dalla sorpresa d’essere: l’affranca
di luce il suo costrutto per dimore
che ascendono murate al vivo,
illese
nel tenere per saldo e per nitore
terrazze a sghembo, cupole di chiese.
Nelle arcate profonde del viadotto
il mare verde inabissato annera.
In alto i vetri del tramonto, sotto
questo fresco parlare che è già
sera.
Antonio Vuolo, un giornalista che gli fu amico e lo frequentò, in
occasione del Santarosa festival di
Conca del 2009, nel corso del quale s’è celebrato il centenario della nascita
di Alfonso Gatto, su Positanonews ha
scritto: “di cene insieme ne consumammo
tante a Minori con l’allegra brigata di Lelio Schiavone, Antonio Castaldi,
Bruno Fontana e Mario Carotenuto o ad Atrani a tirare l’alba in miti conversari
nella piazzetta/salotto con le scalinate e l’agile campanile di San Salvatore
de Birecto a far da quinta. Gatto amava molto Atrani, città d’un tempo e d’ogni
giorno colta nella sorpresa d’essere con quel costrutto per dimore che
ascendono murate al vivo, illese nel tessere per saldo e per nitore terrazze a
sghembo, cupole di chiese, là dove nelle arcate del viadotto il mare verde
inabissato annera con in alto i vetri del tramonto e sotto il fresco parlare
ch’è già sera”. Gatto – ricorda Vuolo
– “non disponeva di macchina ed odiava la guida. Così, spesso, mi
chiedeva di fargli compagnia nelle scorribande da Vietri a Positano, con soste,
sempre più frequenti negli anni, a Minori, a Ravello, ad Atrani, ad Amalfi, a
Conca, a Furore, a Positano”.
“Verso la fine degli anni sessanta – aggiunge – mi
chiese di trovargli una casa nel verde degli agrumeti, nel silenzio assorto
della campagna spalancata sull’infinito dell’orizzonte del mare dei miti e
della storia. Girammo a lungo tra Ravello, Scala, Pogerola di Amalfi e Furore.
La trovò a Conca. Gli piacque e fu il suo rifugio. E a Conca dedicò una
bellissima lirica, in cui registrava la paura da mancamento su per l’erta delle
scale dal mare alla collina”.
SEGUENDO
L’ERTA DI CONCA
Il
mezzogiorno lastrica le mude
di calce spenta, mi sostiene il vago
terrore di mancare, così nude
le gambe irragionevoli che appago
del ricordo del sole, così mio
l’inganno di seguirle al tremolìo
dell’universo vuoto.
Nel precipizio del cadere immoto
la mia paura a strèpito del cuore.
Ad attrarmi
così, nel lieve moto
di quegli aghi silenti, fu stupore
di vita la
sembianza dell’addio
che a distinguere il volto mi trovavo.
Ero l’orma sparita nell’incavo
del segno, a rilevarmi dall’oblio
fu la musica torrida, la spera
d’un riverbero alato, la Chimera.
Oltre Conca, era
il fiordo di Furore a scatenare nel poeta “l’assorta meraviglia dell’essere”. Insieme
al “paesetto di Riviera” dove
La sera amorosa
ha raccolto le logge
per farle salpare
le case tranquille
sognanti la rosa
vaghezza dei poggi
discendono al mare
in isole, in ville
accanto alle chiese.
Le parole di
Gatto, i versi che ha dedicato alla Costiera – sottolinea Alessandra Ottieri – “ci restituiscono un’immagine possente della
nostra terra, il cui ricordo non solo va preservato come una gemma rara, ma va
coltivato, messo a frutto, divulgato presso le nuove generazioni per riscoprire
l’amore verso un angolo della nostra penisola che ha bisogno, per riscattarsi,
di ritrovare la memoria di sé”.
E questo è compito
nostro e dei nostri figli.
Sigismondo Nastri
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