Una volta mi capitò di attardarmi più del solito nella redazione del
giornale al quale collaboravo, situata nel centro di Salerno, e solo quando mi
ritrovai in strada, a notte fonda, mi resi conto che avevano già smesso di
circolare i mezzi pubblici di trasporto. Stavo sul bordo del marciapiedi,
di fronte al palazzo di Città, cercando di recuperare il coraggio di
mettermi in cammino, a piedi, per rientrare a casa, nel quartiere Torrione. In
giro non c'erano segni di vita, a parte il traffico, pure scarso, che
scorreva velocemente.
Un extracomunitario, senegalese, si fermò con la sua vettura sgangherata - una vecchia Peugeot -, mi chiese in francese se avevo bisogno di aiuto, si rese disponibile a darmi un passaggio. Io accettai, facendo di necessità virtù. Però in cuor mio ero preoccupato e lo davo a vedere.
Un extracomunitario, senegalese, si fermò con la sua vettura sgangherata - una vecchia Peugeot -, mi chiese in francese se avevo bisogno di aiuto, si rese disponibile a darmi un passaggio. Io accettai, facendo di necessità virtù. Però in cuor mio ero preoccupato e lo davo a vedere.
All’arrivo non volle assolutamente essere ricompensato. Dopo di che non
l'ho più visto e sentito. Non ho mai saputo il suo nome né lui ha saputo il
mio.
Nel breve tratto di lungomare, fino all’ex ostello della gioventù, parlammo
di un mitico presidente del Senegal: Léopold Sedar Senghor, ideologo della négritude,
poeta, accademico di Francia. Era l’unica cosa che conoscevo di quel paese
africano, affacciato sull’Oceano Atlantico, e me ne vergognavo. Capivo che
l'extracomunitario, costretto a Salerno a fare i mestieri più disparati, forse il
bracciante agricolo o il venditore ambulante, aveva un livello d'istruzione
elevato.
Sotto tutte le latitudini ci sono i buoni e i cattivi: non conta da dove
veniamo, dove viviamo, che lingua parliamo, qual è il colore della nostra
pelle. Guai a fare di ogni erba un fascio.
©
Sigismondo Nastri
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