Riprendo tra
le mani Sette, il supplemento del Corriere della sera, datato 22 luglio
scorso, e mi soffermo sull’editoriale del direttore, Pier Luigi Vercesi, che non
avevo ancora letto. Lo condivido: non tanto per le informazioni che fornisce,
su base Istat: 4,6 milioni di italiani in stato di assoluta povertà, pari al
7,6% dei residenti e due volte e mezzo quelli censiti nel 2007 (1,8 milioni, il
3,1%). E poi: il calvario dei giovani che non trovano sbocchi occupazionali
(sarebbero 600 mila quelli, tra i 15 e i 19 anni, che non studiano, non
lavorano, né cercano un impiego).
Chi se ne fa/dovrebbe farsene carico in una “Repubblica
democratica, fondata sul lavoro”?
Non
sono i dati statistici che mi hanno colpito, ma la conclusione a cui
giunge Vercesi. Se la classe dirigente (politica ed economica) non affronta questi problemi – dice – a partire dalla scuola, le disuguaglianze
sono destinate a crescere: “e allora quell’eccellenza che vuole farsi élite non
di governo ma di privilegio, come in epoca feudale, prima o poi pagherà il
prezzo che hanno pagato, nella Storia, tutte le élite strabiche: prima la
protesta, poi l’insicurezza, infine la violenza”.
Io sono vecchio, non ci
sarò. Ma mi auguro, per il futuro di
questo nostro Paese, che una ribellione delle coscienze, con un sussulto di
dignità, ci possa essere. Ricordo che sono state le grandi rivoluzioni (non necessariamente
sanguinarie: penso a quella del Cristianesimo e alla “satyagraha”, la
disobbedienza non violenta di Gandhi, più che al 1789 francese o al 1917 russo)
a segnare tappe fondamentali nella storia dell’umanità.
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