Sull’ultimo numero (giugno 2016) di San Francesco,
il mensile della Basilica di Assisi diretto dal mio conterraneo Padre Enzo
Fortunato, il professore Domenico De Masi commenta l’omelia di Papa Francesco,
pronunciata a Santa Marta il 18 maggio scorso, nella quale mette
sotto accusa lo sfruttamento del lavoro. “Le ricchezze in se stesse sono buone”,
dice il papa, ma quanti accumulano ricchezze con sfruttamento, lavoro in nero,
contratti ingiusti sono delle "sanguisughe
che vivono dei salassi del sangue della gente”. E aggiunge: “Il sangue di chi è
sfruttato nel lavoro è un grido di giustizia al Signore. Lo sfruttamento del
lavoro, nuova schiavitù, è un peccato mortale”.
Sono parole dure, che dovrebbero giungere al cuore,
far riflettere, in particolare quanti si definiscono cristiani, ma temo che –
presi da altre cose, il calciomercato (penso ai 94 milioni di euro per un giocatore di pallone), ad esempio, o Pokémon go, le vacanze al mare o in montagna – si dissolvino come una folata di vento.
Mai forse, prima d’ora, un papa si era espresso, su un tema sociale così importante come quello del lavoro, con
tanta chiarezza di linguaggio. Per
completezza d’informazione, De Masi aggiunge due dati statistici
impressionanti: “i 62 uomini più ricchi
del mondo detengono una ricchezza pari a quella di 3,5 miliardi di poveri (cioè
metà di tutto il genere umano vivente); “le dieci famiglie più ricche d’Italia,
da sole, accumulano una ricchezza pari a quella di sei milioni di italiani
poveri”.
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