mercoledì 20 luglio 2016

MEMORIE DI UN OTTUAGENARIO. A PESCA DI TOTANI CON LO SCRITTORE ACHILLE CAMPANILE

Sul declinare dell’estate del 1951 lo scrittore Achille Campanile - aveva allora cinquantadue anni - venne in vacanza ad Amalfi insieme con una giovane donna, bella, elegante, gentile.  Non ricordo in quali circostanze li conoscemmo. Eravamo tre amici: per qualche giorno rinunciammo a star dietro alle ragazze ritenendo che un personaggio di tale levatura meritasse un po’ d’attenzione da parte nostra. Una sera li invitammo a una battuta di pesca. Si andava a totani. Non si lasciarono pregare. La cosa li stuzzicava molto. Ci recammo alla spiaggia del porto. La barca – un gozzo – era parcheggiata sulla ghiaia. Lentamente, facendola scorrere sulle falanghe (gli appositi scivoli di legno), la calammo in acqua, appena oltre la linea della battigia. Montammo a bordo. Filippo Iovieno (compagno di scuola e di avventure, poi collega in giornalismo, morto prematuramente), il più esperto tra noi, diede un’ultima spinta e balzò su di corsa. Angelo Piumelli era già ai remi. Campanile e la sua affascinante accompagnatrice si godevano il paesaggio, pur senza perderci di vista, mentre ci allontanavamo dalla riva.
Achille Campanile
La lampada ad acetilene, accesa a prua, metteva a nudo i fondali col loro tappeto d’alghe. Si vedevano i pesci attraversare rapidi il campo luminoso. Quando ritenemmo che il posto fosse quello giusto, a metà strada tra l’estremità del porto e  la torre dell’hotel Luna, Filippo gettò l’ancora (si fa per dire: era un masso legato a una corda). Estraemmo da una borsa i filaccioni e li calammo in acqua, srotolando con garbo la matassa, dopo aver applicato agli ami dei pezzi di alici per mimetizzarli. Cominciò l’attesa, col filo trattenuto ben stretto tra indice e pollice, per avvertire ogni sollecitazione proveniente dal basso. Achille Campanile seguiva le operazioni con curiosità. Quando il totano abbocca – gli spiegavamo – dà uno strappo al filo. E’ il momento di tirare su la lenza. Capitò più volte, quella sera. Filippo e Angelo (io non sono mai stato un abile pescatore) si presero cura di liberare la preda dagli ami. Cercavamo, ogni volta che si riusciva a catturare un totano, di scansare gli spruzzi che ci lanciava in un ultimo e vano tentativo di difesa.
Sul mare soffiava una brezza leggera ma insistente. La barca dondolava ritmicamente, inclinandosi ora da un lato ora dall’altro. Cominciai a sentirmi male e cercavo di non farlo capire. Impresa disperata: avevo lo sguardo stralunato, il volto ancora più pallido di quanto non lo fosse abitualmente. Sporsi il capo oltre la fiancata e vomitai. Superato il momento critico, mi girai verso i compagni d’avventura quasi a voler chiedere scusa, a giustificarmi. M’accorsi che Campanile rideva. “Come è possibile – esclamò – che un discendente della più antica repubblica marinara soffra il mal di mare? Racconterò quest’episodio”. E rivolgendosi direttamente a me aggiunse: “Prima o poi ti ritroverai in un mio libro”
© Sigismondo Nastri

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