La data è bene impressa nella mia mente: 12 marzo 1996. Era di pomeriggio,
sul tardi. Cronache del Mezzogiorno aveva la redazione nel
Palazzo Edilizia, che si affaccia imponente su piazza Amendola e, dall’altro
lato, sul lungomare di Salerno. Il direttore, Gigi Casciello,
mi disse: “Perché non vai a intervistare i Neri per caso,
che stanno proprio qui sotto, nel bar Varese? Poi, tornando, visto che hai con
te la macchina fotografica, fai qualche fotografia agli extracomunitari, in
coda davanti alla Questura per il permesso di soggiorno. Anche su di loro mi
scrivi un pezzo”. Scesi, al bar Varese trovai Diego Caravano e Massimo
Devitiis. Dopo qualche resistenza, dovuta al fatto che il loro gruppo era
legato per contratto a un’agenzia di comunicazione, riuscii a raccogliere qualche
dichiarazione interessante e anche a fotografarli.
Passai, quindi, all’espletamento
dell’altro incarico. Sotto i portici della questura c'era una lunga fila di
persone, anche donne con bambini in braccio. Appena mi videro cominciarono a
lamentarsi: “Ci troviamo da stamattina qui – mi disse
uno, sicuramente africano, che si spiegava abbastanza bene in italiano – e
non ce la facciamo più. Ci trattano come bestie”. Non finì di pronunciare
queste parole, che gli arrivò un ceffone. Fui lesto a riprendere la scena con
la mia Canon. Ma più lesti di me furono coloro che mi sollevarono di peso e mi
condussero in questura. Mi chiesero conto di quello scatto, del perché mi
trovassi lì. “Sono un giornalista”, risposi. Dovetti dimostrarlo
esibendo la tessera dell’Ordine. Non bastò. Mi “depositarono” in uno
stanzino per decidere il da farsi. Volevano che consegnassi l'apparecchio
fotografico. “Costa 700 mila lire – obiettai -. Se
volete, sequestratelo pure, ma verbalizzatene le ragioni”. No, mi fu
replicato, non si poteva, perché io non avevo commesso nessun reato. Ma non mi
avrebbero consentito di uscire di là con l’immagine dello schiaffo impressa sul
negativo. Al giornale mi aspettavano, avevo fretta di risolvere la
questione. Chiesi di parlare col questore, mi dissero che non era in ufficio e che
il vice questore, che io conoscevo bene, era in ferie. Uno, con un fisico
da energumeno, mi ammonì: “Non la facciamo parlare con nessuno, qui
comandiamo noi”. Mi tornò davanti agli occhi la scritta letta sulla porta,
mentre entravo, sollevato in aria come un sacco di patate: “Falchi”.
Mi sentivo solo. Passò per il corridoio una persona, un esponente di partito
col quale m'ero trovato a fare battaglie politiche insieme negli anni sessanta.
Mi salutò con un cenno della mano e, rivolto ai “sequestratori”, disse: “E’
un amico, non gli fate troppo male”. Difatti non fui preso né a calci
né a pugni. Ma non mi fu consentito di mettermi in contatto col giornale (come?
a quel tempo non eravamo ancora provvisti di telefonini).
Dopo un lungo tira e molla arrivammo a un compromesso. Consegnai solo il
rullino, avrebbero provveduto loro a sviluppare le foto e me le avrebbero
recapitate in redazione. Tempo, un’ora. Tranne, ovviamente, quella dello
schiaffo al povero immigrato. Furono di parola, puntuali. Ricordo che, appena
riferii l'accaduto, corsero in questura a protestare sia il direttore Casciello
che Umberto Belpedio, che allora gli dava una mano – mano da
maestro, qual è! – a costruire il giornale.
L'articolo sui Neri per caso lo scrissi di getto e uscì il giorno dopo. L'altro episodio l'ho tenuto per me vent'anni. Ne parlo oggi, solo per la storia, la mia piccola storia,
L'articolo sui Neri per caso lo scrissi di getto e uscì il giorno dopo. L'altro episodio l'ho tenuto per me vent'anni. Ne parlo oggi, solo per la storia, la mia piccola storia,
Aggiungo, per completezza d'informazione,
che a distanza di una settimana mi capitò d’incontrare il questore in un noto
ristorante dalle parti di Capo d’orso. Era a tavola con due signore. Puntai
verso di loro l’obiettivo e subito desistetti, esclamando: “Non vorrei
che mi succedesse un altro guaio!”. Mi sentì, si alzò, mi venne incontro. “E’
lei?” domandò. “Sì, sono io. Ma lei come lo sa?”, ribattei. “Guai
se non sapessi quello che avviene nel mio ufficio”, commentò. Con una
stretta di mano mi porse le sue scuse.
© Sigismondo Nastri
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