Quando ero ragazzo, ad Amalfi, il mio barbiere - Vincenzo D’Alessandro, atranese - operava in un locale, in via Pietro Capuano, che sembrava un mastrillo, tanto era piccolo. Eppure sulla porta aveva una vistosa tabella con la scritta: Salone. Se tu, entrando, non stavi attento, correvi il rischio di sbattere la fronte contro la parete dirimpetto.
Confesso
una mia ignoranza: ma perché le botteghe dei barbieri si chiamano salone? Il
dizionario mi dà questo significato: «Locale
ampio in cui opera un parrucchiere per uomo o signora oppure si praticano cure
estetiche». Dico subito che quella del parrucchiere per uomo, o
acconciatore, o hair stylist, designer, scultore, architetto della chioma, poeta
della trico art’, come amano
chiamarsi oggi, è un’attività che non mi interessa.
A
me interessa parlare del barbiere di una volta, che Peppino De Filippo, nel
film Totò Peppino e i fuorilegge, definisce “missionario”. Una professione in via di estinzione, come
tanti altri mestieri. Una professione soppiantata dal progresso. E non solo
quella.
Nel
ricordo della mia infanzia, legata alla guerra, ci sono mestieri addirittura
inimmaginabili oggi. L’acconciatiano,
ad esempio, qualcuno mi sa dire chi era? Era uno che, girando per le case, con
un piccolo trapano e un sottile filo di ferro aggiustava (cioè riassemblava)
piatti, zuppiere e tiane ‘e creta
(tegami di terracotta), che s’erano rotte anche in più pezzi. Acconciatiano perché il tegame di
terracotta era un utensile importante in cucina: il recipiente insuperabile per
farci il ragù o per cuocerci i fagioli. Allora, mi riferisco al tempo della
guerra e all’immediato dopoguerra, era difficile che si buttasse qualcosa, se
non era del tutto irrecuperabile. Oggi, se si spariglia un servizio, si va a
comprarne subito un altro.
Poi
c’era 'o 'mbrellaro, capace di
mettere a posto l’ombrello raddrizzando o sostituendo le stecche di metallo che
s’erano deformate per un colpo di vento e magari mettendo una pezza laddove la
stoffa s’era lacerata. Oggi, con gli ombrelli che si vendono a cinque euro
(addirittura meno, all’Ikea), una riparazione – se anche si trovasse uno capace
di farla – costerebbe certamente di più.
Anche
il mestiere dell’ammolaforbece è
diventato raro. Per rifare le lame di coltelli e forbici bisogna aspettare che
passi la macchina con l’altoparlante che ti avvisa: «È arrivato l’arrotino!».
Stessa voce, stesso modo di fare, stessa auto, in ogni parte d’Italia. Come se
l’arrotino avesse il dono dell’ubiquità.
E
l’acchiappacane? Per noi ragazzi era
uno spettacolo vederlo rincorrere quelle povere bestie che non sapevano dove
ripararsi, fino a quando non venivano prese da un orribile cappio. Era un
mestiere pure quello dell'accalappiacani, che dava da vivere. Devo aggiungere
che, allora, i cani che scorazzavano senza padroni per le vie erano numerosi e,
a volta, si rendevano pericolosi.
Un
altro personaggio che si vedeva girare frequentemente per le strade era 'o bannetore, il banditore, utilizzato per
comunicare ai cittadini annunci pubblici e privati: ad esempio, un guasto alla
rete dell’acquedotto, la chiusura di una strada. O magari l’inaugurazione di
una nuova attività commerciale o una vendita straordinaria di merce (mi viene a
mente la carne di bassa macelleria, che in tempi di magra richiamava
l’interesse di molta gente). Per farsi sentire, il banditore aveva un megafono
e faceva precedere l’annuncio dal suono di una campanella o dal rullio di un
tamburo.
C’erano,
però, mestieri che avevano un peso ben più
rilevante nella vita sociale.
'O scarparo, del quale ormai
s’è persa la memoria, faceva le scarpe, artigianalmente, prendendo la misura
del piede. ‘O solachianielle, invece,
si limitava a risuolarle o a rifarci i tacchi. Ce n’è rimasto qualcuno,
ringraziando il cielo.
E,
poi, 'o canestaro, il cestaio. Ne conosco
uno, a Tramonti. Ricordo che s’andava da
lui anche per le scope di saggina (mica esistevano scope firmate, come oggi:
Pippo, eccetera!).
'O ferraro, il fabbro: era
l’artista del ferro, sempre a martellarlo rovente sulla forgia. Costruiva
ringhiere, balaustre, spalliere per il letto. Un lavoro che s’è evoluto,
lasciando ampio spazio a nuovi materiali, quali l’alluminio e il pvc. Ma quello
era un lavoro che coinvolgeva anche l’estro, la fantasia, il senso dell’estetica.
Oggi è fondato solo sulla tecnica.
'O masterascio, l’ebanista:
costruiva il mobile, utilizzando legno pregiato. Lo scolpiva, gli dava dignità
di opera d’arte. Ora – in tempo di omologazione dei gusti, ma principalmente di
scarse risorse – siamo tutti, più o meno, clienti dell’Ikea. Se si rompe una
sedia, andiamo a comprarla lì.
'O ferracavalle, il maniscalco:
quando s’andava in carrozza c’erano, ovviamente, pure i cavalli. Ci son rimasti
pochi muli: non esiste più spazio per il lavoro del maniscalco, che è il
calzolaio degli equini. Qualche volta, sotto casa mia, a Maiori, m’è capitato
di vederne all’opera uno, sicuramente venuto da fuori. Conservo esposto in casa
un ferro di cavallo, come portafortuna.
'O cravonaro, il carbonaio:
ebbe il colpo di grazia quando, con l’avvento delle bombole a gas, negli anni
cinquanta, le vecchie care cucine maiolicate furono trasformate e
all’arredamento tradizionale subentrarono quegli orribili mobili detti
all’americana, con lucidi pannelli di formica.
'O carcararo, il calcararo:
era un’attività molto presente in Costiera, soprattutto a Maiori, di cui resta
memoria nei ruderi superstiti delle carcare:
impianti capaci di trasformare la pietra in calce.
'O stagnaro, lo stagnaio:
realizzava con lo stagno caurare e caurarelle (pentole e casseruole),
secchi, piccoli utensili domestici. Poi lo stagno è stato soppiantato
dall’alluminio e, quindi, dall’acciaio.
'O cusetore, il sarto: ti
prendeva le misure, ti confezionava il vestito, oppure lo rivoltava se era
vecchiotto, lo adattava da una persona all’altra modificandolo a seconda delle
misure prese. Una volta niente si buttava. In famiglia solo il primo figlio
aveva il privilegio d’indossare abiti nuovi, che via via venivano utilizzati
per il secondo, il terzo figlio e così via.
‘O cartaro: un mestiere
antico dalle nostre parti, pressoché cancellato, insieme alle cartiere,
dall’alluvione del 1954.
Scomparirà
anche 'o furnaro, il fornaio, perché,
prima o poi, saremo indotti, da una scaltra campagna pubblicitaria, a comprare
sfilatini surgelati da far dorare nel forno a microonde. Avviene nelle grandi
città. Lo fanno già i supermercati. Il pane di una volta conservava il profumo
delle fascine di lecìne (lecci), con
le quali si alimentava il forno.
E
non parlo, per carità di patria, di vecchi mestieri legati al mondo contadino.
Come quello – faticoso, usurante - della trasportatrice di limoni, raccontato
con tanta intensità drammatica in una poesia di Peppino Di Lieto e in un video
realizzato da Giancarlo Barela: ‘E
furmechelle. Offenderei la dignità di queste donne, alle quali bisognerebbe
dedicare un museo. Anche quello di spruzzare verderame sulle chiante di limoni, con quel singolare
apparecchio a manovella appeso dietro le spalle, era un mestiere.
Sono
attività, quelle elencate (me ne sono sfuggite sicuramente altre), strettamente
legate all’abilità manuale. Il loro ricordo è destinato a perdersi. Ma sono attività, insisto, che hanno un
importante valore storico, etnografico-antropologico e culturale, oltre che
economico (perché hanno assicurato per lungo tempo la sopravvivenza a molte
famiglie).
Il
progresso tecnologico, l’automatizzazione e la meccanizzazione dei cicli
produttivi sono certamente alla base della loro scomparsa. La civiltà
dell’informatica ci ha fatto perdere anche il piacere della manualità. Certo,
ci ha rimesso la qualità della vita. Ma così va il mondo, così procede la
storia dell’umanità.
14.3.2016
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