Martedì 8 marzo ricorre il quarantesimo anniversario della morte di Alfonso Gatto. Voglio qui ricordarlo non solo come poeta, lieto di aver intrapreso - da direttore di èCostiera - una battaglia vincente quando si temette che la Mondadori volesse mandare al macero i suoi libri rimasti invenduti, ma anche come uomo: era buono, sensibile,
generoso, paziente.
Lo incontrai, la
prima volta, il 9 ottobre 1966 nella sala interna del Gran Caffè ad Amalfi. Fu
l'avvocato Alfonso Iovane, che era stato suo compagno di scuola, a presentarmi
a lui. In un'altra occasione, sempre l'avvocato Iovane, gli disse che scrivevo
poesie e gli chiese se potevo portargliele a leggere per avere un suo giudizio. Gatto m'invitò ad andare a Conca dei Marini, dove stava trascorrendo la vacanza
in una casa messa a sua disposizione dal parroco di san Pancrazio don Antonio
Acampora. Ci andai nel pomeriggio del 7 agosto 1967. Si prese cura,
pazientemente, di scorrere tutti i fogli dattiloscritti, raccolti in una
cartella, e di darmi - di volta in volta - il suo giudizio sulle
"cose" da me scritte: "questa sì, questa no".
Fu
quell'incontro che mi spinse a dare alle stampe, nel 1970, la breve raccolta che chiamai
Acquamorta.
Ripropongo qui due scritti, pubblicati su mondosigi nel 2007 (ma anche su altri organi di stampa), relativi ai poemetti che il poeta salernitano dedicò rispettivamente a John Kennedy e a Yuri Gagarin.
L’OMAGGIO DI ALFONSO GATTO A JOHN KENNEDY
"LA ROSA DEL PRESIDENTE", UN POEMETTO DEL GRANDE POETA SALERNITANO DEDICATO AI FIGLI DEL PRESIDENTE ASSASSINATO A DALLAS
Pubblicato su un periodico nel novembre 1964, poi, inspiegabilmente, è stato ignorato (o dimenticato) dagli studiosi di Gatto e dallo stesso curatore della raccolta delle sue poesie, edita di recente dalla Mondadori. Ho ritrovato, per caso, questo testo tra vecchie carte e ne ho dato notizia questa mattina sul "Salernitano".
Alfonso Gatto dedicò a Caroline e “John John” Kennedy, i figli del presidente degli Stati Uniti assassinato a Dallas il 22 novembre 1963, un poemetto, che fu pubblicato nella ricorrenza del primo anniversario del tragico evento. Mi sorprende il fatto che non abbia lasciato traccia. Neppure nella recente riproposizione dell’opera poetica di Gatto, curata da Silvio Ramat per gli Oscar Mondadori. Credo che sia sfuggito a tutti gli studiosi del poeta salernitano. Lo stesso Francesco D’Episcopo, a quanto mi risulta, non ne ha mai parlato.
John Fitzgerald Kennedy, nato il 29 maggio 1917, aveva solo quarantacinque anni quando fu colpito a morte dal colpo di fucile sparatogli alla nuca da Lee Oswald. La sua presidenza, durata mille giorni (era stato eletto il 20 gennaio 1961), fu caratterizzata dall’impegno contro ogni discriminazione razziale e, sul piano internazionale, da una linea nello stesso tempo decisa e morbida, come dimostrò la gestione della crisi con l’Unione Sovietica, provocata dalla scoperta delle rampe di missili nucleari a Cuba nel 1962.
Una circostanza fortuita mi ha consentito di recuperare “La rosa del presidente” tra mie vecchie carte. E’ un testo non solo di straordinaria bellezza stilistica ma di forte contenuto, che testimonia la particolare sensibilità del nostro poeta. Sarei tentato di accostarlo ai “Sepolcri” di Foscolo. “Kennedy – afferma Gatto – è morto ucciso dalla spina / della sua rosa, della sua speranza, / della sua luce. O tenebra del mondo / in quella sera che ci parve chiusa / dal silenzio ostinato del suo nome. / Si velava di pioggia la distanza / del tempo in ogni luogo, era l’accusa / della colpa comune, e dire ‘come?’, / ‘perché?’, sembrava chiedere al profondo / dissenso che ci unisce la ragione / della sua vita necessaria a tutti, / agli innocenti, ai giusti, a chi ripone / dentro la terra il seme dei suoi frutti”.
In ottantaquattro versi endecasillabi Alfonso Gatto ci offre questa triplice suggestiva descrizione di John Fitzgerald Kennedy: Un presidente giovane che “ha nel viso / la sua pensosa libertà, vi spazia / nuove frontiere, si rifiuta al torto / di patteggiare col terrore. E’ sorto / dal cipiglio dei dèspoti il sorriso / di quest’uomo gentile che ringrazia / col suo stupore d’essere mortale / come il negro che lustra il grattacielo / o l’operaio che raschia dentro il gelo / le rotaie di ferro. Ha il bene e il male / dell’uomo medio che a se stesso uguale, / sempre diverso, è intento alla misura / d’andare oltre il suo segno, ancòra al segno / dell’uomo e al pianto della sua sventura”. Un presidente giovane, indifeso, che “è nella vita che non ha paura / d’essere vita. Il bene gli è proteso / dallo sguardo di tutti, le parole / gli scoprono le cose, questo sole / d’intorno è lieto, trepido d’umani / occhi, di facce in corsa, di lontani / clamori, d’ogni mano, d’ogni testa / che si levi a mostrargli com’è desta / l’ansia spiegata a correre dal seme / della giustizia: vento e campo insieme / la parola sicura che contesta / d’uguale forza l’urlo che più teme”. Un Presidente giovane che “ha nel viso / la sua pensosa libertà, la mite / tenacia che non cede: il suo sorriso / è lo sgomento che per tante vite / la pace sia sospesa a questa guerra / deflagrante nel nulla, alla cometa / del suo rapido cenno. / Se reclina / il capo è per l’orrore che la terra / è morta il giorno in cui sembrava lieta”.
© Sigismondo Nastri (da mondosigi.com, 12.6.2007)
"LA ROSA DEL PRESIDENTE", UN POEMETTO DEL GRANDE POETA SALERNITANO DEDICATO AI FIGLI DEL PRESIDENTE ASSASSINATO A DALLAS
Pubblicato su un periodico nel novembre 1964, poi, inspiegabilmente, è stato ignorato (o dimenticato) dagli studiosi di Gatto e dallo stesso curatore della raccolta delle sue poesie, edita di recente dalla Mondadori. Ho ritrovato, per caso, questo testo tra vecchie carte e ne ho dato notizia questa mattina sul "Salernitano".
Alfonso Gatto dedicò a Caroline e “John John” Kennedy, i figli del presidente degli Stati Uniti assassinato a Dallas il 22 novembre 1963, un poemetto, che fu pubblicato nella ricorrenza del primo anniversario del tragico evento. Mi sorprende il fatto che non abbia lasciato traccia. Neppure nella recente riproposizione dell’opera poetica di Gatto, curata da Silvio Ramat per gli Oscar Mondadori. Credo che sia sfuggito a tutti gli studiosi del poeta salernitano. Lo stesso Francesco D’Episcopo, a quanto mi risulta, non ne ha mai parlato.
John Fitzgerald Kennedy, nato il 29 maggio 1917, aveva solo quarantacinque anni quando fu colpito a morte dal colpo di fucile sparatogli alla nuca da Lee Oswald. La sua presidenza, durata mille giorni (era stato eletto il 20 gennaio 1961), fu caratterizzata dall’impegno contro ogni discriminazione razziale e, sul piano internazionale, da una linea nello stesso tempo decisa e morbida, come dimostrò la gestione della crisi con l’Unione Sovietica, provocata dalla scoperta delle rampe di missili nucleari a Cuba nel 1962.
Una circostanza fortuita mi ha consentito di recuperare “La rosa del presidente” tra mie vecchie carte. E’ un testo non solo di straordinaria bellezza stilistica ma di forte contenuto, che testimonia la particolare sensibilità del nostro poeta. Sarei tentato di accostarlo ai “Sepolcri” di Foscolo. “Kennedy – afferma Gatto – è morto ucciso dalla spina / della sua rosa, della sua speranza, / della sua luce. O tenebra del mondo / in quella sera che ci parve chiusa / dal silenzio ostinato del suo nome. / Si velava di pioggia la distanza / del tempo in ogni luogo, era l’accusa / della colpa comune, e dire ‘come?’, / ‘perché?’, sembrava chiedere al profondo / dissenso che ci unisce la ragione / della sua vita necessaria a tutti, / agli innocenti, ai giusti, a chi ripone / dentro la terra il seme dei suoi frutti”.
In ottantaquattro versi endecasillabi Alfonso Gatto ci offre questa triplice suggestiva descrizione di John Fitzgerald Kennedy: Un presidente giovane che “ha nel viso / la sua pensosa libertà, vi spazia / nuove frontiere, si rifiuta al torto / di patteggiare col terrore. E’ sorto / dal cipiglio dei dèspoti il sorriso / di quest’uomo gentile che ringrazia / col suo stupore d’essere mortale / come il negro che lustra il grattacielo / o l’operaio che raschia dentro il gelo / le rotaie di ferro. Ha il bene e il male / dell’uomo medio che a se stesso uguale, / sempre diverso, è intento alla misura / d’andare oltre il suo segno, ancòra al segno / dell’uomo e al pianto della sua sventura”. Un presidente giovane, indifeso, che “è nella vita che non ha paura / d’essere vita. Il bene gli è proteso / dallo sguardo di tutti, le parole / gli scoprono le cose, questo sole / d’intorno è lieto, trepido d’umani / occhi, di facce in corsa, di lontani / clamori, d’ogni mano, d’ogni testa / che si levi a mostrargli com’è desta / l’ansia spiegata a correre dal seme / della giustizia: vento e campo insieme / la parola sicura che contesta / d’uguale forza l’urlo che più teme”. Un Presidente giovane che “ha nel viso / la sua pensosa libertà, la mite / tenacia che non cede: il suo sorriso / è lo sgomento che per tante vite / la pace sia sospesa a questa guerra / deflagrante nel nulla, alla cometa / del suo rapido cenno. / Se reclina / il capo è per l’orrore che la terra / è morta il giorno in cui sembrava lieta”.
© Sigismondo Nastri (da mondosigi.com, 12.6.2007)
UNA POESIA DI ALFONSO GATTO PER YURI GAGARIN (L’HO RITROVATA TRA VECCHI GIORNALI INGIALLITI)
Sfoglio, con la curiosità della prima volta, le mie vecchie carte: pagine ingiallite di giornali ovviamente già lette, e tenute poi da parte per decenni, e trovo che esse mi riservano straordinarie sorprese. Dopo “La rosa del Presidente”, della quale ho già avuto modo di occuparmi, ecco che viene fuori un’altra poesia di Alfonso Gatto ugualmente sfuggita all’attenzione degli studiosi. Nemmeno di questa trovo traccia nel volume “Tutte le poesie”, a cura di Silvio Ramat, edito da Mondadori, che pure si propone di offrirci una “rilettura integrale” della produzione in versi del nostro grande poeta. Titolo: “Giorno di festa per Yuri”, che, lo si comprende bene, è Gagarin. Gatto la scrisse il 29 marzo 1968, due giorni dopo la sua tragica fine. Yuri Gagarin aveva trentaquattro anni. Sette anni prima, il 12 aprile 1961, aveva compiuto un volo di 108 minuti nello spazio, consacrandosi “Icaro redivivo”. Era partito alle ore 9,07 di Mosca dal cosmodromo di Baikonur, a bordo di una navicella, la Vostok 1, del peso di 4,7 tonnellate, compiendo un’intera orbita ellittica intorno al nostro pianeta a una distanza massima di 344 chilometri (apogeo) e minima di 190 chilometri (perigeo). Da lassù la Terra, vista attraverso l’oblò, gli apparve “blu… bellissima”. Il rientro fu guidato da un computer controllato dalla base spaziale. La capsula frenò la sua corsa con l’accensione dei retrorazzi e, all’altezza di settemila metri, Gagarin fu espulso dall’abitacolo e paracadutato al suolo, nei pressi della città di Takhtarova. Erano le 10,20, ora di Mosca.
Fu, quello, un avvenimento di alto valore scientifico, che aprì la strada alla conquista dello spazio, ma anche di grande significato politico. E se servì all’Unione Sovietica per dimostrare che era all’avanguardia in questo campo, spinse gli Stati Uniti ad accelerare i propri programmi, tanto che appena otto anni dopo, il 21 luglio 1969, Neil Armstrong, partito dalla base del Kennedy Space Center, in Florida, a bordo dell’Apollo 11, insieme con Michael Collins ed Edwin Aldrin, potè muovere il primo passo sulla superficie della Luna.
Gagarin morì il 27 marzo 1968 mentre era in volo a bordo di un Mig 15 – un caccia da addestramento – insieme con un esperto collaudatore. Le circostanze dell’incidente non sono state mai chiarite. Si parlò di un guasto, si disse che i piloti non avevano avuto il tempo di lanciarsi dall’aereo, perché preoccupati di non farlo cadere in zone abitate.
Le ceneri di Gagarin furono collocate in un loculo scavato nelle mura del Cremlino, privilegio riservato agli eroi dell’Urss. “Un poeta non crede alla tua morte”, canta Alfonso Gatto. “Un poeta non sceglie per te le sue tristi parole, / la sua tristezza che non è finita / e che del mondo intende la sorte”. E aggiunge: “A noi resta il tuo nome, / col tuo nome chiameremo il domani, / le navi le piazze, la via / di casa: t’indicheranno le mani. / Sarai notizia, domanda, il dove, il come / dell’avventura che si dà ragione. / Saremo detti vissuti nell’ora tua / e della tua giovane vita / […] / Ti porteremo le cose buone, / i dolci frutti, l’ingenua terra che scava / la sua fatica, ti porteremo l’ava / che ride, il bambino che sgambetta, / la tua Russia fiorita. / Sarai dovunque libertà che aspetta / e la speranza che semina il cielo”.
© Sigismondo Nastri (da mondosigi.com, 1.7.2007)
Sfoglio, con la curiosità della prima volta, le mie vecchie carte: pagine ingiallite di giornali ovviamente già lette, e tenute poi da parte per decenni, e trovo che esse mi riservano straordinarie sorprese. Dopo “La rosa del Presidente”, della quale ho già avuto modo di occuparmi, ecco che viene fuori un’altra poesia di Alfonso Gatto ugualmente sfuggita all’attenzione degli studiosi. Nemmeno di questa trovo traccia nel volume “Tutte le poesie”, a cura di Silvio Ramat, edito da Mondadori, che pure si propone di offrirci una “rilettura integrale” della produzione in versi del nostro grande poeta. Titolo: “Giorno di festa per Yuri”, che, lo si comprende bene, è Gagarin. Gatto la scrisse il 29 marzo 1968, due giorni dopo la sua tragica fine. Yuri Gagarin aveva trentaquattro anni. Sette anni prima, il 12 aprile 1961, aveva compiuto un volo di 108 minuti nello spazio, consacrandosi “Icaro redivivo”. Era partito alle ore 9,07 di Mosca dal cosmodromo di Baikonur, a bordo di una navicella, la Vostok 1, del peso di 4,7 tonnellate, compiendo un’intera orbita ellittica intorno al nostro pianeta a una distanza massima di 344 chilometri (apogeo) e minima di 190 chilometri (perigeo). Da lassù la Terra, vista attraverso l’oblò, gli apparve “blu… bellissima”. Il rientro fu guidato da un computer controllato dalla base spaziale. La capsula frenò la sua corsa con l’accensione dei retrorazzi e, all’altezza di settemila metri, Gagarin fu espulso dall’abitacolo e paracadutato al suolo, nei pressi della città di Takhtarova. Erano le 10,20, ora di Mosca.
Fu, quello, un avvenimento di alto valore scientifico, che aprì la strada alla conquista dello spazio, ma anche di grande significato politico. E se servì all’Unione Sovietica per dimostrare che era all’avanguardia in questo campo, spinse gli Stati Uniti ad accelerare i propri programmi, tanto che appena otto anni dopo, il 21 luglio 1969, Neil Armstrong, partito dalla base del Kennedy Space Center, in Florida, a bordo dell’Apollo 11, insieme con Michael Collins ed Edwin Aldrin, potè muovere il primo passo sulla superficie della Luna.
Gagarin morì il 27 marzo 1968 mentre era in volo a bordo di un Mig 15 – un caccia da addestramento – insieme con un esperto collaudatore. Le circostanze dell’incidente non sono state mai chiarite. Si parlò di un guasto, si disse che i piloti non avevano avuto il tempo di lanciarsi dall’aereo, perché preoccupati di non farlo cadere in zone abitate.
Le ceneri di Gagarin furono collocate in un loculo scavato nelle mura del Cremlino, privilegio riservato agli eroi dell’Urss. “Un poeta non crede alla tua morte”, canta Alfonso Gatto. “Un poeta non sceglie per te le sue tristi parole, / la sua tristezza che non è finita / e che del mondo intende la sorte”. E aggiunge: “A noi resta il tuo nome, / col tuo nome chiameremo il domani, / le navi le piazze, la via / di casa: t’indicheranno le mani. / Sarai notizia, domanda, il dove, il come / dell’avventura che si dà ragione. / Saremo detti vissuti nell’ora tua / e della tua giovane vita / […] / Ti porteremo le cose buone, / i dolci frutti, l’ingenua terra che scava / la sua fatica, ti porteremo l’ava / che ride, il bambino che sgambetta, / la tua Russia fiorita. / Sarai dovunque libertà che aspetta / e la speranza che semina il cielo”.
© Sigismondo Nastri (da mondosigi.com, 1.7.2007)
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