Da giorni sono
impegnato in un compito immane: rimettere ordine nelle mie carte, accatastate
di qua e di là e deciderne la destinazione: proprio ieri ne ho trasferito un bel
mucchio – una quindicina di scatoloni – al Centro
di cultura e storia amalfitana. Altri scatoli, pieni di libri, andranno
alla Biblioteca comunale di Maiori.
Ma il lavoro non è finito: richiederà tempo e pazienza. E sopportazione da
parte di chi mi sta vicino. Oltretutto, offre sorprese incredibili. Come questo
manoscritto, del quale dirò adesso, che risale, credo, all’inizio del Novecento
e reca, nel retro del frontespizio (il titolo è: “Superstizioni e profezie”), la firma dell’autore, Donato Maiorino,
e l’indicazione “Riservati tutti i
diritti”. A un secolo, più o meno, di distanza, credo di potermene occupare
senza problemi. Prima di arrivare a me, il documento faceva parte dell'archivio di famiglia di mia moglie, che ha origini lucane per parte di padre.
Da quel che m’è
sembrato di capire, scorrendo i dodici fogli rigati, scritti fitto fitto con
grafia semplice e pulita, il Maiorino doveva essere di Rionero in Vulture, dato
che in più passaggi accenna – con una certa ironia - alle abitudini del popolo
rionese che crede “al fischio che produce
la legna mentre si arde, e voi, trovandovi sul posto, vedete che chi è presente
sputa su quella piccolissima linguetta di vampa che si produce per mezzo di
esso. Perché si fa questo? Perché, si dice, che vi sono gente che li critica,
ma non si conosce chi lo fa. Così, sputando su quel fuoco, si allontana la
persona che critica”.
Altra usanza: “Quand’è
il giorno delle nozze di un giovane contadino, la madre dello sposo, prima che
il figlio esce di casa per recarsi in chiesa con la sua metà, gli mette nelle
tasche della giacca o dei calzoni un pugno di grano ch’essa prende dal granaio.
Facendo così – si dice – allontanano dal figlio qualche fattura, che una strega
potesse fare al novello sposo”.
Quanto a
stregoneria, sempre a Rionero, c’era “un
certo [omissis], chiamato comunemente
‘il magaro’, il quale esercitava quest’ignobile mestiere, tanto che la sua
rinomanza era portata in diversi punti della Provincia Venivano da lui
cittadini di Avigliano, San Fele, Sterpito ecc. per consultarsi in tema di
fattucchierie. Si recavano con le loro giumente cariche di ogni sorta di merce,
oltre i denari che lui spillava da essi nell’esercitare quella sua specie di
professione. Anche dei rionesi si recavano da lui – segretamente – per farsi
predire il futuro”.
Altre
superstizioni: “nel basso popolino,
quelle di non nominare né acqua né fuoco nel tempo della trebbiatura,
specialmente quando nell’aria vi è del grano, perché – essi dicono – il prodotto
si squaglia. Le suddette parole è anche proibito quando si mangia. Se entra
qualche persona che cerca i suddetti generi (giacché le nostre donnine per
rinfrancarsi il tempo di accendere il fuoco e andarsi a prendere alla fontana
una boccia d’acqua, perché quest’ultimo elemento manca in tutte le abitazioni)
si recano dal vicinato a prenderli, ché essendo oggetti comuni se li scambiano
facilmente fra esse, però quando si accorgono che si mangia non profferiscono
parola”.
E veniamo al
periodo natalizio. “Il popolino, come
anche dai signori, fa in casa propria delle ‘pettole’ – pasta fritta nell’olio
di oliva – e proibiscono di stare i propri mariti in casa. Le donne per
toglierseli dalla loro abitazione danno ad essi il denaro necessario per
mandarli a bere in una bettola, perché – esse dicono – stando in casa e bevendo
l’acqua essi si bevono l’olio che vi sta nella padella sul fuoco e le ‘pettole’
non vengono secondo il loro pensiero. Queste fritture di pasta fatta in casa le
fanno attocigliate come se fosse un serpe che sta nel buco. Dopo terminato
questo lavoro, con un po’ di pasta, esse fanno vicino al camino il segno della
croce e resta lì per vario tempo finché, questo, non si dissecca e cade da sé.
In quella casa dove non c’è il ‘San Martino’ – come esse lo chiamano – non si
sono fatte quelle fritture suddette. Ciò è segno di miseria o di disturbi in
famiglia. Le donne quando entrano in una casa e vedono quel segno, dicono: ‘San
Martino!’. Si scambiano il saluto facendosi assaggiare la roba fatta.”
Ma c’è dell’altro.
Uno starnuto fatto a tavola alla vigilia di Natale, mentre si stava a mangiare,
era foriero di una disgrazia mortale. A
questo proposito, viene citato uno scienziato austriaco secondo il quale lo
starnuto fatto a sinistra è un segno nefasto, mentre al contrario è di felice presagio
quello fatto a destra. Ma c’è di più. “Avrà
anche avvenimenti lieti colui che starnuterà al principio del pranzo, mentre
avrà imminenti disgrazie chi lo farà a metà pasto”. Peggio ancora se lo
starnuto è fatto dal basso in alto. E se lo starnuto provocherà una rotazione
da sinistra a destra sarà “precursore di
pazzia”. Lo starnuto “abortito”,
come quelli di Totò in certi film, è da considerare “segno di vecchiaia precoce e quanto mai senile”.
In tema di
profezie, c’è da aspettarsi una cattiva stagione invernale “se la neve che cade la prima volta coprisse il solo cocuzzolo del
Monte Vulture. Se poi arriva sino al basso delle sue pendici, è segno per essi
che la stagione sarà buona: cioè senza gran quantità di neve.”
I contadini
dicono: “Quando il Vulture si fa il
cappello / vendi le capre e compri il mantello”. Al contrario: “Quando la montagna si cala le brache /
vendi il cappello e compra le capre”.
Noi siamo dei
fortunati perché la Tv ci dà, in tempo reale, le previsioni del tempo. All’inizio
del Novecento si faceva affidamento sul canto del gallo. “Su questo animale domestico, re del pollaio, se col suo chicchirichì
canta dispari è segno di cambiamento di temperatura, se cantasse pari è di buon
dì.”
“Tutte queste cose superstiziose – conclude il
manoscritto – dovrebbero cessare completamente d’essere pronunziate dalla bocca
di molti popoli e, specialmente, di quello rionese, giacchè, oggi, non siamo
più ai tempi di una volta, quando si credevano agli Dei, ma con l’epoca in cui
viviamo e con lo sviluppo della civiltà dovrebbero sparire totalmente dalla
mente dei popoli odierni tutte queste dicerie, che formano soggetti di paura
nelle masse incolte e ignoranti.”
Mi piacerebbe
che qualcuno mi fornisse informazioni sull’autore del testo, Donato Maiorino, sempre che non si
tratti di uno pseudonimo, dato che il nome richiama un sacerdote, Donato, che nel IV sec. d.C., dopo l’editto
di Costantino, “contagiato” da Ceciliano, fu a capo di uno scisma nella Chiesa,
che, guarda caso!, portò alla ordinazione di un Maiorino, domestico di Lucilla – come riferisce la Istoria
Ecclesiastica - a vescovo di Cartagine.
Ma forse non è così. Scopro su internet che sia il nome sia il cognome sono ben
presenti a Rionero in Vulture.
Sigismondo
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