venerdì 26 settembre 2014

"VOGLIA DI RACCONTARE", IL LIBRO DI RITA DI LIETO CHE RICOSTRUISCE LE VICENDE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE ATTRAVERSO I RICORDI DEGLI ABITANTI DELLA COSTA D'AMALFI



Come consumata cronista di giornale - uno di quelli maggiormente lesti a portarsi sulla scena del delitto o sul luogo dell’incidente, per raccogliere le più immediate e attendibili impressioni della gente -, Rita Di Lieto, che nella vita ha fatto la professoressa di francese (ora è in pensione, meritata!), è stata pronta a recepire la “voglia di raccontare” degli abitanti della Costiera per raccogliere – prima che sia troppo tardi - le loro testimonianze sulla seconda guerra mondiale, che vide lo sbarco alleato (quella che è denominata “operazione Avalanche”) a Maiori e ad Amalfi – oltre che a Salerno e nel tratto di costa picentino, la notte tra l’8 e il 9 settembre del 1943.
E con il libro, intitolato per l’appunto “Voglia di raccontare”, edito da Officine Zephiro nella collana Volamarina, ci ha regalato una documentazione genuina, in buona parte di prima mano, che potrà essere di notevole utilità agli studiosi. Queste testimonianze – nota nella prefazione Vincenzo Esposito, docente di Antropologia culturale nell'università di Salerno – sono scorze, cortecce, brandelli di una superficie che forse nasconde ciò che sottende ma non lo nega. “Elementi di un’oralità che mostra, nonostante la sua parzialità – e come potrebbe essere altrimenti – il suo legame con i fatti che narra, la sua discendenza diretta da quei fatti vissuti in prima persona o ascoltati dai testimoni diretti – padri, madri, fratelli, parenti dei morti o dei sopravvisuti”.
Ho anch’io indelebile memoria di quegli eventi. Avevo otto anni, abitavo nella Valle dei Mulini, al piano più alto del palazzo Anastasio. Di fronte, il mare, chiuso in lontananza dalla torre dello Ziro, a un lato, e dal campanile di san Biagio, all'altro lato. E poi il fitto alveare rappresentato dai tetti delle case di Amalfi. Ero capace di localizzare i due, tre panifici attivi: Gennarino Muoio, Giosuè… Ogni mattina mi affacciavo alla finestra: se vedevo alzarsi un filo di fumo, voleva dire che per quel giorno ci sarebbe stata la razione di pane (50  grammi, mi pare, con la tessera annonaria). Altrimenti, niente.
Ricordo la guerra. A scuola, il sabato, si andava in divisa da balilla (io non l'ho mai avuta, ma solo perché la famiglia non aveva  i mezzi per comprarmela. Subivo continui richiami. Una volta promisero che me l’avrebbero regalata in occasione della “befana del fascio”, poi evidentemente ci ripensarono. Ricevetti solo penna e quaderni. Fu allora che, sentendomi discriminato, diventai... antifascista). C’era il saluto littorio alla bandiera: dritti, piedi uniti, braccio destro alzato. Come mostravano certi ritratti di Mussolini.  In occasione dei discorsi del Duce ci conducevano negli arsenali per farceli ascoltare attraverso la radio. Ci impegnavano nella raccolta di residui e frammenti di metallo, che avrebbe dovuto servire per fabbricare cannoni. La patria - sentivamo ripeterci - aveva bisogno di noi. Andavamo a cercare chiodi, fili di ferro e altro materiale nelle cunette, lungo i sentieri di campagna, nelle soffitte.
E ricordo pure il fragore causato dallo scoppio delle bombe: quelle cadute in piazza Flavio Gioia, che lasciarono a terra morti e feriti;  l’altra che colpì una vecchia cartiera nel cuore della Ferriera. E poi il lancio di un serbatoio vuoto da un aereo, che sfondò il tetto della casa abitata dalla famiglia Pinto (“Tabborio”) sulle Grade Lunghe, in cima alla salita che conduce alla Madonna del Rosario. A parte i danni all'edificio, per fortuna non ci furono morti o feriti. Prudentemente, però, papà ci aveva fatto stendere a terra, come misura protettiva.  
Rita Di Lieto
Lo sbarco avvenne in piena notte. La mattina, all’alba, andai alla finestra, come al solito, e rimasi sconvolto. La superficie del mare era interamente occupata dalla flotta angloamericana. C’era stato, intanto, l’armistizio. Le campane suonavano a festa. La gente appese a balconi e terrazzi drappi e coperte bianche, lenzuola. Come segnale di benvenuto ai nuovi occupanti o accettazione della resa, non so. Cominciò subito un fitto cannoneggiamento che aveva come obiettivo Castellammare di Stabia. Dalle navi partivano a intervalli regolari delle lingue di fuoco che solcavano il cielo e scomparivano dietro la montagna di Pogerola.
Con l’arrivo degli americani noi bambini, che avevamo considerato fino a quel momento le carrube il massimo della bontà, imparammo a conoscere il cioccolato. Quello vero.
Rita Di Lieto ha avuto la pazienza di inserire nel libro, con immagini fotografiche di notevole interesse, molte narrazioni degli avvenimenti di quel tempo,  già pubblicate su “Comunitando”, il periodico dell’Unità pastorale Lone-Pastena-Pogerola, al quale lei collabora. Il parroco, don Andrea Apicella, l’ha indotta ora ai mettere insieme, in un volume, buona parte – la più significativa – di questo materiale. Decisione senz'altro da elogiare. Perché la “grande” storia, oltre che sui documenti, si ricostruisce attraverso le piccole storie - quelle della quotidianità - della gente comune. Per diventare, così, patrimonio anche degli "addetti ai lavori".
Le vicende inserite nel volume, ben curato, di oltre duecento pagine, corredato da una ricca  come quella che ha per protagonista Salvatore Cuomo di Lone, mitragliere e cannoniere sulle unità  della V Divisione Navale. Un’odissea, dalla quale per fortuna è tornato indenne, salvo l’amputazione di un dito. O quella di Alfonso Bove, pure di Lone, sopravvissuto all’affondamento dell’incrociatore Conte di Cavour che, colpito da una bomba, “s’arapette comme a na pagnotta ‘e pane”.  Francesca Sarno, amalfitana, che la guerra non l’ha combattuta, è testimone del primo bombardamento a tappeto di Napoli, il 4 dicembre 1942. Sentì gli aerei, si sporse dalla finestra, ma non riusciva a capire cosa fossero gli oggetti che piovevano dal cielo: “Non sapevamo che erano le bombe”, aggiunge.
bibliografia, sono molte (a occhio e croce, una sessantina) e, se pure non tutte avvenute in Costiera, sono riferite comunque a esperienze vissute da abitanti del nostro territorio:
“Voglia di raccontare” è un libro che soprattutto i giovani dovrebbero leggere. Esso ci porta a fare un tuffo in un passato meritevole di essere conosciuto meglio di come lo si apprende a scuola. Perché è dalla esperienza degli avi, dal loro raccontare e raccontarsi - se riusciamo a farne tesoro - che si può costruire un futuro migliore. Non certo da un pacifismo ideologico, di maniera.
Sigismondo Nastri

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