mercoledì 24 settembre 2014

LA CONTESTAZIONE ALL'AUTORITA' ECCLESIASTICA, DURANTE LA PROCESSIONE DI SAN MATTEO A SALERNO, RICHIAMA ALLA MEMORIA UN EPISODIO ACCADUTO AD AMALFI IL 27 GIUGNO 1946



Domenica mattina (ore 8.14) su Facebook scrivevo: “Oggi, per san Matteo, festa a Salerno senza fuochi pirotecnici (ci credo poco), senza ‘inchini’ durante la processione (ci credo meno), con più sobrità (ci credo ancora meno), senza applausi da ‘parata’ (non ci credo proprio). Staremo a vedere in che misura saranno osservate le direttive del vescovo”.
La processione, nel pomeriggio inoltrato, l’ho seguita in televisione (complimenti a Telecolore e a Franco Esposito per la qualità dei servizi, mi restano perplessità sui commenti, tesi a dare, come si dice, “un colpo alla botte e uno al cerchio”)  e, da cattolico, ne sono rimasto inorridito.  Man mano che le immagini scorrevano sul video, ho postato le mie osservazioni: “Vergogna! (ore 19.12) A Salerno sono stati capaci di trasformare una processione, cioè un evento religioso, che avrebbe dovuto testimoniare la fede e la devozione di un popolo, in uno squallido avvilente spettacolo di varietà. Che san Matteo li perdoni”. E poco dopo: “Mi viene da piangere (ore 19.58) a vedere lo spettacolo osceno offerto dalla città di Salerno. La gente applaude (ai portatori disobbedienti, più che a san Matteo) e fischia (all’indirizzo dell’arcivescovo) come se stesse allo stadio in curva sud”. E ancora: “Mi sa che papa Francesco (ore 20.21), quando parla, tutti lo acclamano. Poi tutti se ne fregano del suo magistero. Solo finzione, apparenza. Quello che sta succedendo questa sera a Salerno ne è prova. Addirittura c’è stato un ammutinamento dei portatori e la statua di san Matteo è rimasta a terra per alcuni minuti”. Per concludere: “Siamo tornati (ore 21.52) al più genuino paganesimo. Altro che san Matteo! Quando l’arcivescovo ha tentato di recitare una preghiera gli è stato impedito. Ha invitato a fare il segno della croce, non c’è stato nessuno nella folla che gli ha dato retta”.
Chi ha vinto? nessuno. Ha perso la città e non possono definirsi fedeli quelli che hanno contestato, disobbedito all’autorità ecclesiastica e trasformato un momento di fede in corrida.
Domenica sera m’è tornato alla memoria un episodio più o meno analogo che risale al 27 giugno 1946, in occasione dei festeggiamenti patronali in onore di sant’Andrea apostolo ad Amalfi. Quella sede vescovile,  rimasta vacante dopo le dimissioni per anzianità dell’arcivescovo mons. Ercolano Marini, era stata affidata all’arcivescovo primate di Salerno mons. Demetrio Moscato in qualità di amministratore apostolico. Egli aveva vietato l’attraversamento della Marina Grande, dove per antica tradizione si svolgeva  (si svolge ancora) un rito propiziatorio con tutte le imbarcazioni radunate davanti alla spiaggia. La sera prima il presule aveva ancora una volta convocato le autorità locali, i rappresentanti della marineria, quelli del comitato dei festeggiamenti, per ribadire le sue disposizioni. In piazza Flavio Gioia sarebbe stato allestito un apposito podio e di lì, con la statua presente, dopo l’invocazione a sant’Andrea, sarebbero stati benedetti il mare, il naviglio, i marinai e i pescatori. Accordo fatto? Macché.  Certo, il clima politico-sociale non era dei migliori. Il referendum istituzionale, svoltosi il 2 giugno,  aveva accentuato la contrapposizione tra i sostenitori della repubblica, in particolare gli esponenti e i militanti dei partiti della sinistra,  e il clero, accusato di essersi schierato a favore della monarchia sabauda.
Il "mio" san Matteo
Nel tardo pomeriggio del 27 la processione prese il via dalla cattedrale tra due ali di folla: le congreghe con i loro pittoreschi stendardi, l’azione cattolica, i seminaristi, le suore, i frati, il capitolo metropolitano al completo, insieme con l'arcivescovo, la statua, le autorità con il gonfalone del Comune, la banda, il popolo dei fedeli. Di ritorno dal tondo Volpe, all’altezza del Gran Caffè, la testa del corteo tirò dritto, come s’era deciso. Ma i portatori della statua si volsero verso la spiaggia, seguiti dalle autorità civili e dai fedeli, che tra l'altro non s'erano nemmeno avveduti di quel che stava succedendo. Di fronte alla moltitudine di imbarcazioni radunatesi lì davanti, si procedette a un rito che avrebbe dovuto essere sacro, ma divenne laico e blasfemo. La statua fu sollevata il più possibile e girata da un lato e dall’altro, a mo’ di benedizione. La gente fece quello che aveva sempre fatto: pose dei sassolini sulla pedana  e, dopo che erano stati... “benedetti”, li raccolse per conservarli come “reliquie”.
Arrivato in piazza, in un clima di eccitazione collettiva, accentuata dalle note della banda musicale, sant’Andrea - sospinto da un nugolo di portatori - risalì di corsa la gradinata fino all’atrio, ma trovò la cattedrale chiusa.  La situazione si trasformò subito in esplosiva. La prima cosa che si pensò di fare fu quella di sfondare le antiche porte di bronzo e mettere tutto a ferro e fuoco. Ruggiero Francese, ingegnere, esponente del Partito comunista locale e anticlericale agguerrito, sostenne che avrebbe potuto indossare lui i paramenti vescovili e portare a termine le funzioni religiose. Forse si trattò solo di una battuta, comunque inopportuna. La ribellione stava arrivando a un punto di non ritorno. Scese in campo, con l’autorevolezza che lo caratterizzava, il sindaco Francesco Amodio – aveva 32 anni – che avviò una delicata, paziente opera di mediazione da facendo la spola tra i ribelli e i rappresentanti della Chiesa, rifugiatisi in seminario. Un impegno difficile, perché se da un lato i rivoltosi erano esasperati e pronti a tutto, dall'altro mons. Moscato rimaneva fermo nella sua posizione di condanna sia riguardo alla disubbidienza che alla insubordinazione violenta. Solo a notte inoltrata, raggiunto un compromesso, sant’Andrea poté riprendere il suo posto sul trono accanto all’altare maggiore. Toccò a don Nicola Milo, ordinato prete da poco più di due settimane, confrontarsi con la folla e aprire le  porte della cattedrale. Nessuno dei suoi confratelli se l'era sentita di assumersi una tale delicata incombenza.
L’indomani si scatenarono le ire dell’Amministratore apostolico. In un duro documento (cfr. Rivista Ecclesiastica Amalfitana, anno XXXI, n. 3, maggio-giugno 1946) mons. Demetrio Moscato parlò di “sovvertitori”, di “malsane correnti avverse alla  Chiesa”, di seminatori di zizzania, di elementi abituati a pescare nel torbido", che avevano spinto il popolo "all'infrazione della disciplina, alla ribellione ed al disprezzo della Autorità ecclesiastica".
Perché ho raccontato l’episodio? Per sottolineare che ad Amalfi, in un momento storico molto più difficile e complicato rispetto al nostro tempo, un giovane sindaco, che da poco era stato chiamato alla guida del comune, non si lasciò pregare due volte per affrontare la situazione e tutti i rischi che essa presentava. Riuscendo a evitare incidenti, nonostante gli istigatori alla violenza non mancassero. A Salerno s’è lasciato fare di tutto, e non s’è vista ombra di autorità impegnata a… metterci la faccia. Se mai, mi viene da pensare, qualcuno nella melma s'è fatta pure la zuppa.
© Sigismondo Nastri

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