Come
consumata cronista di giornale - uno di quelli
maggiormente lesti a portarsi sulla scena del delitto o sul luogo dell’incidente,
per raccogliere le più immediate e attendibili impressioni della gente -,
Rita
Di Lieto, che nella vita ha fatto la professoressa di francese (ora è in pensione, meritata!), è stata pronta
a recepire la
“voglia di raccontare” degli abitanti della Costiera per
raccogliere – prima che sia troppo tardi - le loro testimonianze sulla seconda
guerra mondiale, che vide lo sbarco alleato (quella che è denominata
“operazione
Avalanche”) a Maiori e ad Amalfi – oltre che a Salerno e nel tratto di costa
picentino, la notte tra l’8 e il 9 settembre del 1943.
E con il libro,
intitolato per l’appunto
“Voglia di raccontare”, edito da
Officine Zephiro nella collana Volamarina, ci
ha regalato una documentazione genuina, in buona parte di prima mano, che potrà
essere di notevole utilità agli studiosi. Queste testimonianze – nota nella
prefazione Vincenzo Esposito, docente di Antropologia culturale nell'università di Salerno – sono scorze, cortecce, brandelli di una
superficie che forse nasconde ciò che sottende ma non lo nega.
“Elementi di
un’oralità che mostra, nonostante la sua parzialità – e come potrebbe essere
altrimenti – il suo legame con i fatti che narra, la sua discendenza diretta da
quei fatti vissuti in prima persona o ascoltati dai testimoni diretti – padri,
madri, fratelli, parenti dei morti o dei sopravvisuti”.
Ho anch’io indelebile memoria di quegli eventi.
Avevo otto anni, abitavo nella Valle dei Mulini, al piano più alto del palazzo
Anastasio. Di fronte, il mare, chiuso in lontananza dalla torre dello Ziro, a
un lato, e dal campanile di san Biagio, all'altro lato. E poi il fitto alveare
rappresentato dai tetti delle case di Amalfi. Ero capace di localizzare i due,
tre panifici attivi: Gennarino Muoio, Giosuè… Ogni mattina mi affacciavo alla
finestra: se vedevo alzarsi un filo di fumo, voleva dire che per quel giorno ci
sarebbe stata la razione di pane (50 grammi, mi pare, con la
tessera annonaria). Altrimenti, niente.
Ricordo la guerra. A scuola, il sabato, si andava
in divisa da balilla (io non l'ho mai avuta, ma solo perché la famiglia non aveva
i mezzi per comprarmela. Subivo continui richiami. Una volta
promisero che me l’avrebbero regalata in occasione della “befana del fascio”,
poi evidentemente ci ripensarono. Ricevetti solo penna e quaderni. Fu allora
che, sentendomi discriminato, diventai... antifascista). C’era il saluto littorio alla
bandiera: dritti, piedi uniti, braccio destro alzato. Come mostravano certi
ritratti di Mussolini. In occasione dei
discorsi del Duce ci conducevano negli arsenali per farceli ascoltare attraverso la
radio. Ci impegnavano nella raccolta di residui e frammenti di metallo, che avrebbe dovuto servire per fabbricare cannoni. La patria - sentivamo ripeterci - aveva bisogno di noi. Andavamo a
cercare chiodi, fili di ferro e altro materiale nelle cunette, lungo i sentieri di campagna, nelle soffitte.
E ricordo pure il fragore causato dallo scoppio
delle bombe: quelle cadute in piazza Flavio Gioia, che lasciarono a terra morti e
feriti; l’altra che colpì una vecchia
cartiera nel cuore della Ferriera. E poi il lancio di un serbatoio vuoto da un
aereo, che sfondò il tetto della casa abitata dalla famiglia Pinto (“Tabborio”)
sulle Grade Lunghe, in cima alla salita che conduce alla Madonna del Rosario. A
parte i danni all'edificio, per fortuna non ci furono morti o feriti.
Prudentemente, però, papà ci aveva fatto stendere a terra, come misura
protettiva.
|
Rita Di Lieto |
Lo sbarco avvenne in piena notte. La mattina, all’alba,
andai alla finestra, come al solito, e rimasi sconvolto. La superficie del mare
era interamente occupata dalla flotta angloamericana. C’era stato, intanto, l’armistizio.
Le campane suonavano a festa. La gente appese a balconi e terrazzi drappi e
coperte bianche, lenzuola. Come segnale di benvenuto ai nuovi occupanti o accettazione della resa, non so. Cominciò subito un fitto cannoneggiamento che aveva come
obiettivo Castellammare di Stabia. Dalle navi partivano a intervalli regolari
delle lingue di fuoco che solcavano il cielo e scomparivano dietro la montagna
di Pogerola.
Con l’arrivo degli americani noi bambini, che
avevamo considerato fino a quel momento le carrube il massimo della bontà,
imparammo a conoscere il cioccolato. Quello vero.
Rita Di Lieto ha avuto la pazienza di inserire nel
libro, con immagini fotografiche di notevole interesse, molte narrazioni degli
avvenimenti di quel tempo, già pubblicate su “Comunitando”,
il periodico dell’Unità pastorale Lone-Pastena-Pogerola, al quale lei collabora.
Il parroco, don Andrea Apicella, l’ha indotta ora ai mettere insieme, in un
volume, buona parte – la più significativa – di questo materiale. Decisione senz'altro da elogiare. Perché la “grande”
storia, oltre che sui documenti, si ricostruisce attraverso le piccole
storie - quelle della quotidianità - della gente comune. Per diventare, così, patrimonio
anche degli "addetti ai lavori".
Le vicende inserite nel volume, ben curato, di oltre duecento pagine, corredato da una ricca
come quella che ha
per protagonista
Salvatore Cuomo di Lone, mitragliere e cannoniere sulle unità
della V Divisione Navale. Un’odissea, dalla
quale per fortuna è tornato indenne, salvo l’amputazione di un dito. O quella
di
Alfonso Bove, pure di Lone, sopravvissuto all’affondamento dell’incrociatore
Conte di Cavour che, colpito da una bomba,
“s’arapette comme a na pagnotta ‘e
pane”.
Francesca Sarno, amalfitana, che
la guerra non l’ha combattuta, è testimone del primo bombardamento a tappeto di
Napoli, il 4 dicembre 1942. Sentì gli aerei, si sporse dalla finestra, ma non
riusciva a capire cosa fossero gli oggetti che piovevano dal cielo:
“Non
sapevamo che erano le bombe”, aggiunge.
bibliografia, sono molte (a occhio e croce,
una sessantina) e, se pure non tutte avvenute in Costiera, sono riferite comunque
a esperienze vissute da abitanti del
nostro territorio:
“Voglia di raccontare” è un libro che soprattutto
i giovani dovrebbero leggere. Esso ci porta a fare un tuffo in un
passato meritevole di essere conosciuto meglio di come lo si apprende a scuola. Perché
è dalla esperienza degli avi, dal loro raccontare e raccontarsi - se riusciamo a farne tesoro - che si può costruire un
futuro migliore. Non certo da un pacifismo ideologico, di maniera.
Sigismondo Nastri