Sfoglio
la Iconologia di Cesare Ripa
(edizioni del 1603 e 1645), affascinato dalle
innumerevoli illustrazioni, e intanto penso alla “donna bella vestita riccamente di Bruccato” della Tabula de
Amalpha, nella quale è ‘significata’ Amalfi, la
mia città. Mi si potrà chiedere cosa c’entri con l’opera dell’accademico
perugino, che presenta in ordine alfabetico le allegorie di “Virtù, Vitij, Affetti, Passioni humane”
e così via: “una specie di enciclopedia
– la definisce Erna Mandowsky -, nel
senso che esse rispecchiano la totalità del sapere umano sulla fine del XVI
secolo”. C’entra, eccome, perché
dimostra che questo tipo di raffigurazione era già presente nel tardo Medioevo come,
del resto, nel mondo classico. Simboli
e allegorie sono elementi tipici della cultura del Cinquecento e del Seicento:
lo documentano gli affreschi dei Palazzi Vaticani e di alcune chiese romane,
realizzati sotto i pontificati di Gregorio XIII (1572-1585), Sisto V (1585-1590),
Clemente VIII (1592-1605). Ma già nei
manoscritti del XV secolo le figure morali erano illustrate in forma allegorica allo scopo di
agevolare – così sembra – il compito dei predicatori, stimolandone la memoria. Lo
stesso Dante Alighieri fa ricorso all’allegoria: quella, ad esempio, delle tre
fiere incontrate lungo il cammino dopo che s’era smarrito di notte nella selva
oscura: una lonza “leggera, e presta
molto, / che di pel macolato era coverta”; un leone: “Questi
parea che contra me venisse / con la
test’alta e con rabbiosa fame, / sì che parea che l’aere ne tremesse”; una
lupa, “che di tutte brame / sembiava carca ne la sua magrezza”. Esse rappresentano
la lussuria, la superbia, la cupidigia, peccati che caratterizzano abbondantemente il
nostro tempo.
La lussuria – per Ripa – “è
un ardente, e sfrenato appetito nella concupiscenza carnale senza osservanza di
legge, di natura, né rispetto d’ordine o di sesso”. È simboleggiata da una
giovane, seduta su un coccodrillo, con una pernice nelle mani: “quasi ignuda, perché e proprio della
Lussuria il dissipare, e distruggere non solo i beni dell’animo, che sono
virtù, buona fama, letitia, libertà, e la gratia del corpo, che sono bellezza,
fortezza, destrezza, e sanità, ma anco i beni di fortuna, che sono danari,
gioie, possessioni, e giumenti”. Nella iconografia dell’arroganza, “una specie di superbia”, compare il
pavone, e non potrebbe essere altrimenti: il dito alto della figura che lo
tiene in braccio indica “l’ostinazione di mantenere la propria
opinione quantunque falsa, & dal commun parer lontana, stimandosi molto,
& sprezzando altrui”. È il “vizio di coloro che se bene si conoscono di
poco valore, non di meno per parere
assai presso à gl’altri, pigliano il carico d’imprese difficili, &
d’importanza”. Pure la “immoderata
cupidigia”, cioè l’avarizia, è impersonata da una donna: “pallida, et brutta con capelli negri, sarà
macilente, et in abito di serva, et le si legga in fronte la parola Πλοῦτσς,
cioè Pluto il quale fu creduto Dio delle ricchezze. Sarà cinta di una catena
d’oro, trahendosene dietro per terra gran parte. Mostrerà le mammelle ignude
piene di latte, et haverà un fanciullino quasi di dietro, magro, et di stracci
non abbastanza vestito, che con la destra mostri di scacciarlo, per non dargli
il latte delle mammelle…”.
La carrellata nella “Iconologia” di Ripa suscita interessanti spunti di riflessione, applicabili alla società di oggi. Verrebbe voglia – e non si può fare – di staccare ad una ad una le pagine per farne due blocchi, da una parte le virtù e dall’altra i vizi, e contarle. Nonostante le situazioni negative che viviamo quotidianamente, spero prevalgano le virtù per dare a noi e ai nostri figli una prospettiva di felicità: cioè “un riposo dell’animo in un bene sommamente conosciuto, & desiderato, & desiderabile”, anch’esso visto sotto le sembianze di una “donna, che siede in un bel seggio regale, nella destra mano tiene il Caduceo, & nella sinistra il Cornucopia pieno di frutti, & inghirlandata di fiori”. Confesso che questo corno dell’abbondanza mi piace metterlo al centro della mensa, nel giorno di capodanno, perché è “il frutto conseguito delle fatiche, senza le quali – ammonisce Ripa - è impossibile arrivare alla felicità”.
La carrellata nella “Iconologia” di Ripa suscita interessanti spunti di riflessione, applicabili alla società di oggi. Verrebbe voglia – e non si può fare – di staccare ad una ad una le pagine per farne due blocchi, da una parte le virtù e dall’altra i vizi, e contarle. Nonostante le situazioni negative che viviamo quotidianamente, spero prevalgano le virtù per dare a noi e ai nostri figli una prospettiva di felicità: cioè “un riposo dell’animo in un bene sommamente conosciuto, & desiderato, & desiderabile”, anch’esso visto sotto le sembianze di una “donna, che siede in un bel seggio regale, nella destra mano tiene il Caduceo, & nella sinistra il Cornucopia pieno di frutti, & inghirlandata di fiori”. Confesso che questo corno dell’abbondanza mi piace metterlo al centro della mensa, nel giorno di capodanno, perché è “il frutto conseguito delle fatiche, senza le quali – ammonisce Ripa - è impossibile arrivare alla felicità”.
©
Sigismondo Nastri (da: L’arte della felicità, Provincia di Salerno, 2012)
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