Nelle
terse giornate d’inverno, quando il sole si muove basso nel cielo, e non è
fagocitato dalla montagna di Capo d’Orso, mi piace osservarne il tramonto, dal
balcone di casa, a Torrione. Mentre si sta inabissando, lo vedo diventare di
fuoco – tanto che faccio fatica a guardarlo -, e tingere di rosso il ponente,
disseminando schegge di luce e di colori sulla superficie appena increspata del
mare, fino a lambire la riva. Lo confesso, è un momento di intensa felicità. Il
“Tramonto” di Luigi Paolillo, conservato alla Pinacoteca provinciale di
Salerno, presenta una scena più o meno uguale: il sole, colto nell’attimo della
sua fissità, prima che si cali oltre la linea retta dell’orizzonte, arrossa lo
spazio in molteplici sfumature e si riflette nell’acqua. Solo che qui gli fa da
cornice un litorale piatto, senz’anima, che
s’allunga in un’ansa sterminata. Tutt’altro scenario rispetto alle immagini
della Costa d’Amalfi, alle quali Paolillo aveva voltato le spalle per fare
nuove intense esperienze al di là dell’oceano.
Singolare,
e avventuroso, il percorso di vita del
pittore maiorese, nato il 9 agosto 1864, combattuto, da ragazzo, tra il
desiderio dei genitori di avviarlo al sacerdozio, che gli avrebbe assicurato un
futuro decoroso, e la sua vocazione per l’arte, che alla fine riuscì a
spuntarla. I tempi erano difficili nella Costa d’Amalfi, colpita da una crisi
profonda, che toccava le tradizionali attività produttive – cartiere, pastifici
- e penalizzava gli strati deboli della popolazione. Si emigrava per cercare fortuna, come recita
una famosa canzone.
Paolillo
era già un artista noto e apprezzato quando, negli anni novanta del XIX secolo,
partì per l’Argentina. Aveva esposto le sue opere a varie edizioni della
Promotrice napoletana tra il 1884 e il 1888. A Buenos Aires partecipò con
successo, anche sotto il profilo economico, alle Esposizioni nazionali del
1896, 1898, del 1903. Quello stesso anno rientrò a Maiori. Nel 1907 decise di
compiere un nuovo viaggio, ancora diretto a Buenos Aires, dove affrescò la chiesa
di san Francesco e quella del Sacro Cuore di Gesù. Espose alla rassegna
internazionale del 1910, sempre nella
capitale argentina; tenne una personale a Santiago del Cile in occasione del
centenario dell’Indipendenza. Per incarico del governo argentino realizzò una
serie di paesaggi a Capo Horn, l’estremità più meridionale del continente
sudamericano, destinati al museo navale. Visitò il Perù, il Brasile, l’Uruguay,
il Paraguay. Dipinse le maestose cascate dell’Iguazù. Tornò in Italia nel 1913,
poi nel 1921 s’imbarcò con destinazione New York. Vi rimase otto anni, nel
corso dei quali ebbe modo di esporre, oltre che nella metropoli statunitense, a
Filadelfia, Montevideo, Cincinnati, Ottawa. Nel 1929 rimise piede
definitivamente in Italia, si sposò, stabilendo la sua dimora a Vietri sul
Mare.
Paolillo
era un pittore dotato di fine sensibilità. Lo affascinavano – scrisse
nell’aprile 1934, un mese prima di morire – “le
meraviglie immateriali della vita; la luminosità del sole; i prati fioriti; le
bellezze del mare; il canto degli uccelli; la dolce luce del plenilunio; le
notti piene di pace di silenzio e di mistero…” (M. Bignardi, I pittori di
Maiori). È possibile che il dipinto esposto alla Pinacoteca provinciale si
riferisca proprio alla Patagonia argentina, dove – cito Charles Darwin – vi
sono pianure “senza case, senza alberi,
senza montagne”. Riferisco una mia sensazione, non ho elementi per
documentarlo. Credo, in ogni caso, che l’artista abbia sofferto di nostalgia
nel trasferire sulla tavoletta un tramonto così diverso da quelli che gli erano
familiari, al quale non fanno da sfondo le montagne della costiera, che si
elevano dall’acqua per toccare il cielo, il verde dei giardini di limoni, il
caleidoscopio delle case abbarbicate alle
colline, che si specchiano civettuole nell’azzurro del mare.
©
Sigismondo Nastri (da: L’arte della felicità, Provincia di Salerno, 2012)
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