Ho
bene impresso nella memoria il volto di quella signora che, nella prima metà
degli anni Cinquanta, veniva nella tipografia amalfitana di Andrea De Luca, situata
accanto agli antichi arsenali, dove io facevo le prime esperienze di lavoro,
per ritirare dei cartoncini colorati, destinati allo scambio di auguri, sui
quali erano impresse le sue inconfondibili ‘figurine’. Di lei, Irene Kowaliska,
conoscevo poco o niente, a quel tempo. Riuscivo, però, ad apprezzarne il garbo, la
gentilezza. Mi piacevano quei piccoli disegni, tanto che cercavo sempre di
trattenerne qualcuno. Se mi metto a rovistare nel disordine delle mie carte è
possibile che riesca ancora a trovarne. L’esplosione
della “moda Positano”, come liberazione dai canoni classici dell’abbigliamento femminile
imposti dalle case di moda, richiamava su questo paese della costa l’interesse
dei media di tutto il mondo. Edna Lewis vi aveva aperto l’Art Work Shop,
frequentato da giovani artisti d’avanguardia provenienti da ogni parte.
Irene
Kowaliska abitava alla Casa Setteventi: si era trasferita a Positano dopo che
negli anni trenta, a Vietri sul Mare, aveva dato impulso, con la colonia dei tedeschi, a un profondo rinnovamento della ceramica. Qui il suo interesse si volgeva
ad altre tecniche decorative: il vetro, il ricamo, la pittura su stoffa,
apprezzata dalle sartorie locali e, superata qualche perplessità, da ateliers
nazionali. Lo documentano certe copertine di riviste dell’epoca, sulle quali le
star del momento indossano vestiti realizzati con le sue stoffe. Basti
ricordare Ingrid Bergman che, nel 1950, si fece ritrarre su Cinémonde con una
gonna dipinta a mano dalla Kowaliska.
Lo
stesso tratto leggero dei cartoncini, che portava a stampare ad Amalfi, lo trovo
nel foulard di cachemire, a fondo giallo, conservato nel museo di Villa De Ruggiero a Nocera
Superiore. Il disegno, in nero, posto a rombo, chiuso in un rettangolo con
motivi ornamentali, caratterizzati dalla scritta “Gioia felicità” ripetuta tutt’intorno,
mostra una scena di grande tenerezza, forse velata da un substrato di
malinconia o magari – per coerenza con quella scritta – di felicità intima, da
non manifestare pubblicamente per non turbarla: un ragazzo e una ragazza che
camminano accostati spalla a spalla, cuoricini, il sole che dà luce dall’alto;
lui reca dei pacchetti-dono appesi a dei fili, lei ha un minuscolo albero di
Natale in mano. È la stessa tenerezza
già riscontrata in una targa di ceramica che Irene Kowaliska disegnò nel 1955
per l’INA-Casa, giudicata da Eduardo Alamaro “forse la più bella immagine che
ci sia capitato di vedere intorno all’idea di ricostruzione post-bellica”: un
gruppo familiare raccolto in una capanna. Sia in questo foulard, sia in quella
mattonella, gli elementi distintivi della sua produzione artistica vi sono
tutti: “a mixture of primitive, Byzantine and modern”, come lei sottolineava. Il
disegno è semplice, e lo era il suo modo di essere, perché “la semplicità –
diceva – rende meno dura la vita”. Salvo
che "quanto più semplici e facili da copiare appaiono le sue figurazioni,
tanto più incolmabile diventa la distanza che essa impone con la sua bacchetta
magica” (E. Alamaro, F. Donato, in
‘Irene Kowaliska un’artista una donna un mito’).
L’accostamento
a “les amoureux” di Raymond Peynet – i cosiddetti “fidanzatini”, simbolo
dell’armonia nel rapporto di coppia – è fin troppo evidente. “Immaginate come
sarebbe una vita senza amore – scriveva Peynet. - Giorni e giorni senza sole, notti e notti
senza stelle. L’amore è necessario alla
vita quanto il sangue che scorre nelle nostre vene. Per questo ho creato un piccolo mondo tutto
particolare, fatto di sogni, d’amore e di poesia”. Un mondo di felicità. Vale
anche per Irene Kowaliska.
©
Sigismondo Nastri (da: L’arte della felicità, Provincia di Salerno, 2012)
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