Ricevo dal direttore de "Il Vescovado", l'amico Emiliano Amato, il programma di un convegno, in programma a Ravello il 24 luglio, sulle vicende storiche che portarono il re Vittorio Emanuele III a cedere, proprio nella cittadina della Costiera, la luogotenenza del regno d'Italia al figlio Umberto.
Questo l'ordine dei lavori.
I
sessione - ore 9.30
Saluti
istituzionali
- dott. Paolo Vuilleumier sindaco
di Ravello
Moderazione:
- dott. Andrea Manzi giornalista
e scrittore
Relazioni:
- prof. Giovanni Cerchia, Università
degli Studi del Molise, Dalla piana
di Salerno alla Gustav: il laboratorio della guerra totale
- dott. Giuseppe Fresolone, Università
degli Studi di Salerno, Politica e
società nei giorni di Salerno Capitale
- prof. Carmine Pinto, Università
degli Studi di Salerno, L'ultima
guerra del Mezzogiorno
- Dott. Crescenzo Paolo Di Martino, cultore
di storia patria, I Reali a
Ravello
II
sessione - ore 16.00
Relazioni:.
- dott. Salvatore Amato,
archivista, Ravello
1943-1944: istituzioni e società
- dott. Salvatore Ulisse Di Palma, cardiologo
e scrittore, 1944 -
Elena di Savoia e Clemente Tafuri nell'arte e per l'arte
- Emiliano
Amato,
giornalista, e | Andrea
Gallucci fotografo e cineoperatore, Videointerviste
ai testimoni dell'epoca
- Prof. Luigi Buonocore, direttore
del Museo dell'Opera del Duomo di Ravello, Villa Episcopio:
il "piccolo Quirinale" di Ravello.
Sull'argomento, ripropongo qui un mio scritto, pubblicato su mondosigi il 7 giugno 2007.
NELLE STANZE DI
VILLA EPISCOPIO A RAVELLO
L’AGONIA DELLA
MONARCHIA SABAUDA
Nelle sontuose stanze di
Villa Episcopio a Ravello, antica sede vescovile, da poco acquistata dalla
Regione per destinarla ad attività culturali, si consumò l’agonia della
monarchia sabauda, sfociata nel referendum del 2 giugno 1946. Il re Vittorio
Emanuele III, proveniente da Brindisi, vi giunse il 14 febbraio 1944, insieme
con la
famiglia. Villa Episcopio era all’epoca di proprietà del duca
Riccardo di Sangro.
Il paese della Costiera cominciò registrare il via vai
dei rappresentanti dei vari partiti democratici aderenti al Comitato di
liberazione nazionale. Al Congresso tenutosi a Bari, Benedetto Croce aveva
dichiarato: «Fin tanto che rimane a capo dello Stato la persona del presente re,
noi sentiamo che il fascismo non è finito, che esso ci rimane attaccato addosso,
che continua a corromperci ed infiacchirci, che risorgerà più o meno camuffato».
Si chiedeva non solo l’abdicazione di Vittorio Emanuele III, ma anche la
rinuncia del principe Umberto. Lo stesso Enrico De Nicola, personaggio di sicura fede monarchica – anche
se il destino lo volle poi presidente della repubblica -, cercava di
convincerlo, tirando in causa la “responsabilità obiettiva”. Il sovrano che
dichiara una guerra e la perde – sosteneva – deve lasciare il trono. E citava i
precedenti storici di Napoleone I, Napoleone II, degli Asburgo e degli
Hoenzollern. Il re tergiversava. In quei giorni ricevette la visita dei
rappresentanti dei governi alleati, l’inglese Harold MacMillan e lo statunitense
Robert Murphy. Quest’ultimo insistette sulla necessità che abbandonasse il trono
in quanto, agli occhi degli americani, la sua figura era associata al fascismo.
Vittorio Emanuele III, infastidito, li licenziò in maniera alquanto
brusca.
Il 14 marzo, era martedì, convocò a Villa Episcopio,
antica residenza vescovile, poi dimora
del duca di Sangro, il maresciallo Pietro Badoglio e i suoi ministri (il
governo, insediatosi a Salerno, aveva prestato giuramento a Ravello il 17 febbraio).
Racconta Epicarmo Corbino nelle sue memorie: «Mentre eravamo tutti riuniti, il
re ci informò che, fino a quando le truppe alleate non fossero entrate a Roma,
non ci sarebbe stato nessun mutamento nella situazione del sovrano; ma in linea
riservatissima aggiunse che solo in quel momento egli avrebbe nominato il
principe Umberto suo luogotenente generale». A De Nicola pose una condizione:
questo doveva avvenire non prima dell’entrata degli alleati a Roma. De Nicola,
nei suoi appunti, scrisse: «Compresi la ragione della condizione: il re era
partito da Roma come re e voleva ritornare in Roma come
re».
Toccò a
Badoglio, in un incontro svoltosi a Villa Cimbrone, di convincere gli
anglo-americani ad accettare la decisione, per senso di umanità verso un uomo di
75 anni che, «se aveva avuto delle colpe, aveva anche il merito di aver dimesso
Mussolini, di aver chiesto l’armistizio, di essersi schierato lealmente con gli
Alleati». Da quel giorno – sottolinea Antonio Spinosa nel suo libro Vittorio Emanuele III, l’astuzia di un
re – il sovrano non indossò più
l’uniforme.
E fu proprio a Ravello, mentre Roma veniva liberata
dalle truppe alleate, che si consumò l’atto forse determinante per la fine della
monarchia in Italia: il conferimento della luogotenenza a Umberto (divenuto poi
re, per un mese, con l’abdicazione paterna del 9 maggio 1946). Il documento fu
sottoscritto proprio a Villa Episcopio. Così Spinosa rievoca quell’evento: «Fu
una cerimonia scarna, ma degna d’un Parsifal per intensità e per la suggestione
dei luoghi prediletti da Wagner. Pieno di amarezza, salutando sulla soglia della
villa il figlio che partiva per la capitale, Vittorio esclamò: "Va’, divertiti
tu, ora"». Il vecchio sovrano, con la famiglia, lasciò la cittadina della costa
e si trasferì a Villa Rosebery, a Posillipo. Vi rimase, però, solo qualche
giorno. L’arrivo del re d’Inghilterra, Giorgio VI, per un’ispezione al fronte
italiano, lo costrinse a sloggiare. Gli alleati non volevano che i due si
incontrassero. Vittorio Emanuele si rifiutò di tornare a Ravello. Accettò,
invece, di trasferirsi a Raito, ospite dell’ambasciatore Raffaele Guariglia,
divenuto nel frattempo ministro degli Esteri. «La villa – ricorda Spinosa – era
a picco sul mare. Da un balcone il re, rattristato e avvilito, fissava l’abisso.
Ne sentiva l’attrazione. A una persona amica che gli era accanto disse, con voce
sommessa: "Se io saltassi da questa roccia…"». Per fortuna non lo fece. Intanto
la storia proseguiva, inesorabile, il suo
corso.
© Sigismondo
Nastri
Nessun commento:
Posta un commento