Ho tra le mani il libro “Ombre
di colore” di Franco Massanova.
L’artista, con grande cortesia, me lo ha fatto spedire dall’editore Fratini di
Firenze, che lo ha pubblicato in armoniosa elegante veste grafica. Anche se mi
lascia un po’ perplesso (è solo una mia impressione, certamente errata) la
copertina, sulla quale di colore, per la verità, ce n’è poco a far da sfondo
alla firma del pittore, posta in bella evidenza, trasversalmente. Perché dico
questo? Perché a sfogliare poi questo corposo catalogo, che ne riassume la
feconda attività, dalle prime esperienze, che risalgono all'inizio degli anni settanta (quei
gomitoli di lana aggrovigliati, man mano dissoltisi per trasformarsi in filamenti,
sagome, fantasmi in movimento, nuove tangenze, contrapposizioni di
linee e di colori), e fino alle Cariatidi
del 2013 (“movimenti ascendenti e
discendenti di strati e di velature”, le definisce Enzo Lauria), partendo dall’ultima pagina, si vede subito che –
liberato dalla “prigionia” di raccontare le cose, le figure, la realtà che lo (ci)
circonda – è proprio sui toni cromatici, sugli accostamenti e sulle dissonanze
dei colori, su un “infittirsi nervoso e
persino graffiante dei tratti”, come rileva Stefania Zuliani, che Massanova realizza le sue composizioni. “Un groviglio di rarefazioni e di
addensamenti – sottolinea Chiara
Serri -, un’ondata cromatica, a volte
scarnificata al punto da rivelare la porosità del supporto, a volte ricolma di
un colore profondo”: giocato su sfumature di rosso, di giallo, di blu, dopo
che, sul finire degli anni novanta, egli era stato attratto da tonalità oscure,
sulle quali la luce – cito Lorenzo Mango
– “si esalta nel suo dialogo con
l’ombra”.
“Ombre di colore”, per l’appunto. Io non
sono un critico d’arte, anche se il mondo dell’arte mi incuriosisce e mi
appassiona. E perciò mi ha sorpreso il gesto, che ho apprezzato tantissimo, di
farmelo avere. C’è di più. Massanova, che prima avevo avuto rare occasioni
d’incrociare, mi ha sollecitato più volte a visitare il suo studio, a Torrione
di Salerno. In quel palazzo, che con squisita sensibilità, è stato intitolato a
Sandor Marai, lo scrittore ungherese
che vi abitò, esule, dal 1968 al 1980. Un edificio come tanti, affacciato sul trafficato
quartiere, nobilitato dagli splendidi pannelli vitrei applicati alle balconate,
realizzati proprio da lui. Non è stato un incontro fugace e neppure
superficiale. Con l’artista mi sono intrattenuto un tempo lunghissimo, dal
pomeriggio fino a sera, senza neppure rendermene conto. Me ne sono accorto
quando sono tornato in strada e ho trovato gli esercizi commerciali già chiusi.

Sigismondo Nastri
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