Pensavo a Karol Wojtyla, ai suoi appelli a spalancare le porte a Cristo,
al ruolo, che Dio gli aveva affidato, di pellegrino d’amore, di giustizia e di
pace nella nostra storia, mentre mi accingevo ad assistere a una delle udienze
generali del mercoledì nell’aula “Paolo VI” in Vaticano. Ero con un gruppo di
colleghi, soci dell’Associazione salernitana della stampa, presieduta dall'amico Mimmo Focilli, che aveva organizzato
il viaggio a Roma con l’autorevole appoggio di Angelo Scelzo. La sala,
progettata da Pierluigi Nervi, è più grande di quanto uno, che non vi sia stato,
riesca a immaginare. Quel giorno, il 27 gennaio del 1993, era gremita. Mi
trovavo coinvolto in un’esperienza che, se m’incuriosiva, mi caricava pure di
una indicibile tensione. Esaurite le formalità di rito, avevamo occupato le
sedie nel settore a noi riservato. Stavamo ora aspettando il momento in cui
Giovanni Paolo II sarebbe entrato dal fondo per portarsi, attraverso il lungo
corridoio centrale, delimitato da transenne, sul palco dominato dal Cristo
trionfante di Pericle Fazzini, dove le porpore cardinalizie componevano un
ulteriore suggestivo elemento scenografico.
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La mia singolare stretta di mano con Giovanni Paolo II |
A ridosso delle transenne, all’improvviso, si avvertì
uno spingi-spingi: segno che era cominciata la corsa alla conquista di una
posizione privilegiata. I più fortunati – meglio, i più lesti – riuscirono a
sistemarsi in prima fila. La prontezza di riflessi mi consentì di essere nel
ristretto numero di privilegiati – ristretto, si badi bene, rapportato a venti o
venticinquemila persone – nonostante l’inesperienza, dovuta al fatto che non
avevo mai partecipato, prima di allora, a un incontro col Papa.
Del Vaticano
conoscevo sì e no la Basilica di San Pietro e la Cappella
Sistina.
Ed ecco che apparve,
nella sua veste bianca, con uno sguardo affaticato eppure dolcissimo, di una
luce capace di penetrare le pietre e le coscienze. Vi fu un applauso prolungato
e assordante. Egli avanzava a piccoli passi, seguito da monsignori e dignitari,
salutando, accarezzando, benedicendo. Tutti cercavano di coglierne, in presa
diretta, un’immagine non di routine, nonostante fossero all’opera un fotografo e
un operatore televisivo “ufficiali”, ai quali era concessa una certa libertà
d’azione.
Il mio
desiderio più grande, vedere Giovanni Paolo II da vicino, si stava realizzando.
Il Papa era costretto, via via, a fermarsi per ricevere i doni recatigli dai
pellegrini venuti da ogni regione d’Italia e dall’estero. Appena mi passò davanti, mi sporsi quanto
potevo, oltre la balaustra, e gli strinsi la mano. Non fu lesto il
fotografo a fissare l’attimo sulla pellicola. Io, intanto, non mollavo
la presa. Si
determinò una situazione imbarazzante, della quale non mi rendevo conto.
Giovanni Paolo II, con delicatezza, cercava di liberarsi. Ci riuscì solo dopo il
flash. Quella foto, che ritirai lo stesso pomeriggio nella redazione
dell’Osservatore Romano, la conservo tra le cose più care. A riguardarla, rivivo
l’episodio con immutata carica emotiva. Mi rivedo sommerso dalla marea umana,
con la mano che s’aggrappa a quella del Santo Padre. E mi tornano in mente le
cose che egli, poco dopo, ci disse: «V’invito ad essere servitori della verità,
affinché l’opinione pubblica possa essere oggettivamente informata e formarsi un
giudizio equanime sulle vicende che vengono riferite». Parole di cui occorre far
tesoro nel nostro lavoro, se vogliamo evitare di incorrere in pericolose cadute
di stile, non rare, purtroppo, nell’universo della
comunicazione. Altro che i corsi di deontologia, organizzati dall'Ordine dei giornalisti, che la legge c'impone di frequentare!
©
Sigismondo Nastri