Ripropongo questo ritratto di fra' Ludovico Di Nardo, già pubblicato il 9 maggio 2007.
Nei
ricordi dell’infanzia amalfitana c’è la figura di un frate, piccolo e anziano:
un monaco ‘e cerca,
cioè questuante. Ero tenuto per mano da mia madre che, nonostante le
ristrettezze in cui ci trovavamo, anche per causa della guerra, gli infilò un
soldino nella saccoccia. Egli mi accarezzò e disse: “Vuo’ nu poco ‘e ciucculato?”. Tirò fuori un
pezzetto di carruba e me lo diede, facendo seguire al gesto l’augurio che
ripeteva abitualmente, al cospetto di bambini: “Crisce santo e viecchio!”. Quella carruba
essiccata in forno sembrava il “non plus ultra” della bontà. La scoperta della
vera cioccolata avvenne più tardi, nell’autunno del 1943, quando sulla costa
sbarcarono gli americani.
Fra' Ludovico, in un disegno di Giovanni Zagoruiko |
Fra’ Ludovico Di Nardo, nato a S. Eufemia
Maiella (Chieti) il 24 settembre 1858,
morì il 20 marzo del 1942,
circondato dall’alone di santità che ne aveva accompagnato l’esistenza
terrena, vissuta per buona parte nel Convento dei Frati Conventuali di Ravello.
Vi era stato assegnato appena compiuto il noviziato, il 2 febbraio 1888.
Ultraottantenne, ancora andava in giro a raccogliere l’obolo per le necessità
della sua comunità e, soprattutto, per i fratini del Collegio Serafico annesso
al convento. Per tutti egli era Marì-Marì:
un’espressione, evocante la Madonna, che adoperava in modo gioioso per
richiamare l’attenzione della gente, in particolare delle donne. Gli bastava
farsi sentire e da finestre, balconi e terrazze piovevano monetine.
“Ogni
famiglia di queste nostre contrade – raccontò Mario Schiavo in un articolo su “Il Duca”
del 1°-15 novembre 1992 – sapeva (e spontaneamente si preparava) che fra’
Ludovico a gennaio sarebbe passato per lasciare gli orciuoli di terracotta (‘e
pignatielli) da riempire di sugna (tempo delle uccisioni dei maiali in
campagna); a maggio per ritirare i vasetti di ‘alici salate’ e che in autunno
si sarebbe fatto rivedere per raccogliere le conserve di pomodoro (essiccate
sui ‘lastrici’ infuocati dal sole) e, poi, olio nuovo, i barili di vino
paesano. ‘San Francesco ha carità e fa carità’: così ripeteva disfacendosi
delle offerte quando si accorgeva degli altrui bisogni. Chi può mai dire quali
opere caritatevoli compì, in varie occasioni, quell’umile fraticello?”.
La fama di santità se l’era
guadagnata a furor di popolo per una serie di avvenimenti strabilianti. Di uno fu
testimone diretta la signora Carmela
Abbagnara De Luca: “Mio padre era a letto, infermo. Mia madre
si allontanò per pochi minuti, giusto il tempo di fare la spesa. Sulla via del
ritorno, s’imbatté in fra’ Ludovico e gli chiese di pregare per il marito
malato. Tornata a casa, papà, che intanto stava meglio, le disse: ‘Ho visto
fra’ Ludovico, è venuto qua’, il che, concatenando i due momenti, risultava impossibile”.
L’ipotesi che si sia trattato di bilocazione non è da scartare.
Tutte
le mattine, dopo un breve raccoglimento innanzi alla tomba del Beato
Bonaventura da Potenza, nella chiesa del
convento, dedicata a san Francesco, fra’ Ludovico scendeva a piedi da Ravello
ad Atrani o a Minori, attraverso una serie interminabile di scalini, e di lì
raggiungeva gli altri paesi della Costiera. Si spostava anche a Salerno,
nell’Agro Nocerino, a Pompei, utilizzando mezzi di fortuna. Chi lo conosceva si
fermava e volentieri lo traeva a bordo, si trattasse di un’autovettura o di una
carretta non importava. Chi non lo conosceva a volte replicava in maniera
sfottente alla richiesta di un “passaggio”: “Zi’
monaco, fattela a père!”. “Sant’Antò’,
pènzace tu!” era il suo commento. Risultato: una diecina di metri
più avanti l’auto rimaneva in panne oppure alla carretta o al calesse si
sfilava una ruota. O, magari, il cavallo s’impuntava e non c’era verso di
costringerlo a camminare. “Vi furono dei casi – raccontò Mario Schiavo –
durante i quali si ritenne gridare al miracolo: la rottura della catena del
timone sulla motonave ‘Ebe’ (che allora collegava Amalfi e i paesi limitrofi
con Salerno) e il guasto al ‘trolley’ delle tranvie sulla linea Vietri-Pagani”.
Capitava quando gli proibivano la questua sui mezzi di trasporto o gli
contestavano di non aver pagato il biglietto (e come avrebbe potuto, dato che,
quasi ad ogni fermata, raccolte le offerte, si spostava da un filobus
all’altro?). I pescatori lo chiamavano Sant’Antò’,
lo invitavano a salire sulle loro barche, a benedire il loro lavoro. Bastava
questo per farli rientrare a riva, la mattina, con le reti stracolme di pesci.
©
Sigismondo Nastri
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