martedì 7 gennaio 2014

MARÌ MARÌ (fra' LUDOVICO DI NARDO), IL FRATE CHE “FERMAVA” LE AUTO E I PIROSCAFI



Ripropongo questo ritratto di fra' Ludovico Di Nardo, già pubblicato il 9 maggio 2007.

Nei ricordi dell’infanzia amalfitana c’è la figura di un frate, piccolo e anziano: un monaco ‘e cerca, cioè questuante. Ero tenuto per mano da mia madre che, nonostante le ristrettezze in cui ci trovavamo, anche per causa della guerra, gli infilò un soldino nella saccoccia. Egli mi accarezzò e disse: “Vuo’ nu poco ‘e ciucculato?”. Tirò fuori un pezzetto di carruba e me lo diede, facendo seguire al gesto l’augurio che ripeteva abitualmente, al cospetto di bambini: “Crisce santo e viecchio!”. Quella carruba essiccata in forno sembrava il “non plus ultra” della bontà. La scoperta della vera cioccolata avvenne più tardi, nell’autunno del 1943, quando sulla costa sbarcarono gli americani.
Fra' Ludovico, in un disegno di Giovanni Zagoruiko
Fra’ Ludovico Di Nardo, nato a S. Eufemia Maiella (Chieti) il 24 settembre 1858,  morì il 20 marzo del 1942,  circondato dall’alone di santità che ne aveva accompagnato l’esistenza terrena, vissuta per buona parte nel Convento dei Frati Conventuali di Ravello. Vi era stato assegnato appena compiuto il noviziato, il 2 febbraio 1888. Ultraottantenne, ancora andava in giro a raccogliere l’obolo per le necessità della sua comunità e, soprattutto, per i fratini del Collegio Serafico annesso al convento. Per tutti egli era Marì-Marì: un’espressione, evocante la Madonna, che adoperava in modo gioioso per richiamare l’attenzione della gente, in particolare delle donne. Gli bastava farsi sentire e da finestre, balconi e terrazze piovevano monetine.
“Ogni famiglia di queste nostre contrade – raccontò Mario Schiavo in un articolo su “Il Duca” del 1°-15 novembre 1992 – sapeva (e spontaneamente si preparava) che fra’ Ludovico a gennaio sarebbe passato per lasciare gli orciuoli di terracotta (‘e pignatielli) da riempire di sugna (tempo delle uccisioni dei maiali in campagna); a maggio per ritirare i vasetti di ‘alici salate’ e che in autunno si sarebbe fatto rivedere per raccogliere le conserve di pomodoro (essiccate sui ‘lastrici’ infuocati dal sole) e, poi, olio nuovo, i barili di vino paesano. ‘San Francesco ha carità e fa carità’: così ripeteva disfacendosi delle offerte quando si accorgeva degli altrui bisogni. Chi può mai dire quali opere caritatevoli compì, in varie occasioni, quell’umile fraticello?”.
La fama di santità se l’era guadagnata a furor di popolo per una serie di avvenimenti strabilianti.  Di uno fu  testimone diretta la signora Carmela Abbagnara De Luca: “Mio padre era a letto, infermo. Mia madre si allontanò per pochi minuti, giusto il tempo di fare la spesa. Sulla via del ritorno, s’imbatté in fra’ Ludovico e gli chiese di pregare per il marito malato. Tornata a casa, papà, che intanto stava meglio, le disse: ‘Ho visto fra’ Ludovico, è venuto qua’, il che, concatenando i due momenti, risultava impossibile”. L’ipotesi che si sia trattato di bilocazione non è  da scartare.
Tutte le mattine, dopo un breve raccoglimento innanzi alla tomba del Beato Bonaventura da Potenza,  nella chiesa del convento, dedicata a san Francesco, fra’ Ludovico scendeva a piedi da Ravello ad Atrani o a Minori, attraverso una serie interminabile di scalini, e di lì raggiungeva gli altri paesi della Costiera. Si spostava anche a Salerno, nell’Agro Nocerino, a Pompei, utilizzando mezzi di fortuna. Chi lo conosceva si fermava e volentieri lo traeva a bordo, si trattasse di un’autovettura o di una carretta non importava. Chi non lo conosceva a volte replicava in maniera sfottente alla richiesta di un “passaggio”: “Zi’ monaco, fattela a père!”. “Sant’Antò’, pènzace tu!” era il suo commento. Risultato: una diecina di metri più avanti l’auto rimaneva in panne oppure alla carretta o al calesse si sfilava una ruota. O, magari, il cavallo s’impuntava e non c’era verso di costringerlo a camminare. “Vi furono dei casi – raccontò Mario Schiavo – durante i quali si ritenne gridare al miracolo: la rottura della catena del timone sulla motonave ‘Ebe’ (che allora collegava Amalfi e i paesi limitrofi con Salerno) e il guasto al ‘trolley’ delle tranvie sulla linea Vietri-Pagani”. Capitava quando gli proibivano la questua sui mezzi di trasporto o gli contestavano di non aver pagato il biglietto (e come avrebbe potuto, dato che, quasi ad ogni fermata, raccolte le offerte, si spostava da un filobus all’altro?). I pescatori lo chiamavano Sant’Antò’, lo invitavano a salire sulle loro barche, a benedire il loro lavoro. Bastava questo per farli rientrare a riva, la mattina, con le reti stracolme di pesci.
© Sigismondo Nastri

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