Nell’approssimarsi del Natale mi piace riproporre il testo della conferenza tenuta il 22 dicembre 2006 nella sala della Biblioteca Comunale di Amalfi, ad iniziativa del Centro di Cultura e Storia Amalfitana.
Vi ricordate le strofette che si
cantavano una volta?
e sto senza renare,
me fumo na pippa
e me vaco a cuccà’.
ca sparano ’e botte
me ’mpizzo ’o cappotto
e vaco a vedé’.
Oppure quest’altra:
’o putecaro ce fa crerenza,
’o canteniero ce mette ’o vino
e facimmo Natale ’ngrazia ’e Dio…
Chi, come me, ha attraversato – negli
anni dell’infanzia – la guerra, conserva nella mente il ricordo non solo delle
inevitabili difficoltà che le famiglie vivevano allora, ma anche della introvabilità dei beni di consumo.
Mangiavamo le sciuscelle e pensavamo
che fosse il cioccolato.
A confrontare quel Natale col Natale di
oggi – osservava Gaetano Afeltra sul
Corriere della Sera, il 22 dicembre
1996 (Natale ’38, a messa da Schuster e a
teatro con i De Filippo) – “ci si accorge di come è cambiata la nostra
vita, in mezzo secolo e più: una vera rivoluzione di costume”.
Rimane, per fortuna, presente nella
nostra tradizione il Presepe. Anche se, vittime di un inarrestabile processo di
globalizzazione e costretti ad assorbire tutto ciò che ci viene proposto,
estraneo ai nostri gusti, alla nostra cultura (dalla Coca Cola ai pop corn,
ai cibi transgenici, fino a Babbo Natale - che ha soppiantato la vecchia
Befana - e Halloween), subiamo l’invasione nelle nostre case di
abeti e finti abeti. Eppure, se il Natale è una festa religiosa, e il presepe
ne è il simbolo, inventato oltretutto da quel grande santo che è Francesco d’Assisi, che ci azzecca
l’albero, direbbe Antonio Di Pietro? L’albero di Natale non appartiene alla
nostra tradizione cristiana; è arrivato a noi dal nord Europa introdotto
dagli antichi Romani, se è vero, come sembra, che essi, durante i Saturnali,
portavano in giro un abete per salutare la fine dell’inverno.
Fu durante la seconda guerra mondiale
che i tedeschi prima e gli alleati poi ne estesero l’uso anche da noi. Ma
i tedeschi l’avevano già esportato in Inghilterra a metà ottocento, con il
corollario delle decorazioni da appendere ai rami: fiori di carta, mele, frutta
secca, candele.
Una conferma di quello che sto dicendo
la trovo in Stefan Andres, lo
scrittore tedesco esule a Positano, che scrive (Terrazze nella luce, in Positano,
storie da una città sul mare, Mediterraneo, 1991):
“Il Natale del 1937 stavamo seduti in
quattro su questa terrazza [quella della Casa Rosa a Positano,
n.d.r.] intorno al tavolo da pranzo e mangiavamo murene cotte nel vino.
Il sole martellava dal cielo plumbeo, il mare era coperto da un grigio manto di
coroncine di schiuma che il possente vento del nord dalle montagne scendeva a
pettinare, e noi pensammo che la nostra terrazza non fosse un brutto posto per
festeggiare l’arrivo del Lucifer matutinus. Sopra il bordo del muretto di
recinzione si sporgeva il nostro albero di Natale: un arancio dalle foglie
scure su cui splendevano i palloncini dorati, come dei piccoli soli che si
potevano toccare.”
Un arancio trasformato in albero di
Natale. Bella l’idea, chiaramente dovuta a uno stato di necessità. Dove lo
avrebbe potuto trovare Andres, a
quel tempo, e in quel contesto ambientale, un abete?
Ed ecco che torno subito al presepe. E
ci torno con una poesia del
sacerdote Domenico Irace, scrittore,
poeta, saggista, al quale, prima o poi, il Centro
di cultura dovrà rivolgere la sua attenzione (da Pagine del cuore, De Luca editore, 1966). E lo dico in questa sede,
salutando la presenza degli amici di Praiano.
NATALE
O dolce festa, che ogn’anno torni
un cumulo d’affetti riportando,
come soave ’l tuo bel velo stendi,
i vicini ai lontani insiem legando!
Memorie dolci, melodie divine,
la Nascita n’adduce di Gesù,
ch’al mondo tra le tenebre recò
il vero amor de ’l Padre di lassù.
La neve ha steso ’l candido suo
manto
Sovra la terra che torna ad
amare,
e ne ’l presepe il Bimbo pare
inviti
gli umani tutti a ben concordi
oprare.
Pur voi rivedo, o grandi cari
assenti,
assisi accanto a me con voce
pia:
mentre di fuori soffia la
tormenta
sento ne ’l cor più viva
nostalgia.
Il
presepe, che si vuole inventato da San
Francesco nel 1224 a Greggio, usando figure di legno intagliato e animali
veri, era in origine solo una rappresentazione liturgica preparata per la notte
di Natale. Poi se n’è impadronita Napoli ed è arrivato, grazie al Cielo, in
tutte le case. Alquanto involgarito, in questi ultimi tempi, con la
introduzione di statuine che, legate ai fatti della quotidianità, riproducono
personaggi della politica, dello spettacolo, della stessa malavita. D’altra
parte, anche quelli settecenteschi, e uno di questi è stato trafugato pochi
giorni fa, nella chiesa della Carità, a Napoli, raffiguravano, nella
spettacolarità delle scene, nella plasticità dei volti dei pastori, la società
del tempo: nella sua ricchezza, documentata dalla preziosità delle sete e delle
stoffe, dei gioielli, e nella sua povertà. “Il presepe – disse Michele
Cuciniello, il cui nome è legato al più celebre dei presepi (ved.
particolare a lato), conservato nel Museo di San Martino) – è il
vangelo tradotto in napoletano”.
Il primo re a ricevere in dono un
presepe fu Filippo V nel 1702. Poi
il figlio Carlo, salito sul trono di
Napoli e Sicilia, ne incoraggiò la moda.
Un accenno alla simbologia del presepe.
“La grotta – riferisce Mabel Fontana Napolitano, in un bel
saggio (Tradizionalmente in festa, De
Luca, Salerno, 2006), che mi è stato dato da leggere in bozza –, cavità
naturale della terra (in Palestina le cavità naturali erano utilizzate come
ricovero per gli animali), rappresenta il grembo materno, accogliente e
fruttifero, e l’antro è pure l’oscurità in cui nasce Cristo, il sole del mondo.
La grotta era un monito alla profondità della tenebra: solo Cristo può
rischiararla e ingrandirla fino a poter contenere il mondo intero. La capanna o
la stalla, dove Maria portò Gesù dopo tre giorni, ponendolo in una mangiatoia,
la miseria e la povertà. La capanna, così fragile, ricorda all’uomo la sua
precarietà, ma anche la possibilità di realizzare, con una materia lieve come
il legno o la paglia, un riparo resistente, metafora della pazienza della fede.
[…] In un presepio napoletano non può
mancare la palma che, oltre a un tocco orientale, è un altro piccolo pezzo di
Vangelo. Lo Pseudo Matteo, infatti, racconta che Maria, stanca per il lungo
cammino, scese dalla giumenta e si fermò all’ombra di una palma. La pianta era
carica di datteri e la Vergine espresse il desiderio di mangiarne. Ma il tronco
era troppo alto per poterne cogliere, allora Gesù ordinò alla pianta di
abbassarsi, così tutti potettero saziarsi. Prima di partire, Gesù concesse alla
palma due privilegi: un suo ramo sarebbe stato portato in Paradiso e i
vincitori di qualche onesta gara, da allora, avrebbero ricevuto la palma della
vittoria. La palma è, comunque, la continuazione simbolica dell’albero della
vita.
L’argento di una carta stagnola o veri
giochi d’acqua, il fiume e la fontana, dove un angelo saluta Maria chiamandola
beata perché nel suo ventre porta il Salvatore, sono elementi d’obbligo.
L’acqua rappresenta la vita stessa, giacché il feto cresce e si alimenta nel
liquido amniotico, nell’accogliente ventre materno. Ed è l’acqua che ci rende
cristiani con il battesimo. […] Essendo il presepe metafora della luce e
del buio, del bene opposto al male, continui sono i rimandi tra i due mondi. Il
ponte rappresenta questo passaggio: la luce e le tenebre, la vita e la morte.
Il vorticare delle pale di un mulino è il simbolico scorrere del tempo che
passa inevitabilmente, ma sempre ricomincia. Il forno: “Dacci oggi il nostro
pane quotidiano”. Gesù, pane della vita. La vigna, il vino, il sangue di
Cristo. Accanto al forno, l’osteria, che simboleggia la pericolosità del
viaggio. L’oste, che rifiuta alloggio a Maria, è come il diavolo. In ogni caso,
come sottolinea De Simone, “è metafora del grande banchetto rituale, dove il
tempo si consuma e si distrugge, ma decifrabile anche come sorta di Eucarestia,
grande mensa sacrale, alla quale partecipano tutte le creature del presente (i
viventi) e del passato (i defunti)”. Il fuoco, immagine stessa della vita,
dell’energia che muove uomini e cose. Il castello, simbolo assoluto del male,
contrapposto alla grotta, dove il bene trionfa, e, su tutto, la corona dei
monti. Le montagne, luogo dell’epifania divina, la manifestazione grandiosa
della divinità.”
Mi ha commosso, l’altra sera, ad Atrani,
il suggestivo ritratto che Teresa
Ingenito ha tracciato del nonno Salvatore,
pastoraro - si fa per dire - non professionista, ma di straordinaria bravura.
Capace di “dare ad ogni statuina l’atteggiamento giusto: l’espressione del viso
conferiva un tocco vitale e rendeva le sue creazioni davvero pregiate”.
Capace, ancora, di “imprimere nei suoi pastori qualcosa di suo, che aveva dentro e che
cercava di comunicare”. Penso anche al meraviglioso presepe del
Carmine, ad Atrani, con tutti i suoi personaggi: primi fra tutti, il pecoraio,
al quale l'artista volle dare le sembianze di un superbo notaio, e la popolana Cristina
'e catolla.
Sul presepe risplende sempre la stella cometa, che guidò i Magi fino
alla grotta di Betlemme. La stella che la notte di Natale facciamo scendere sulla piazza di Amalfi e, quasi
contemporaneamente, su quella di Atrani.
Nel 1970, su La Stampa, Peter Nichols, mitico giornalista
inglese, scrisse:
“Quest’anno ho realmente visto la stella
di Betlemme nel cielo italiano. E, a differenza dei Magi, non ho dovuto
cercarla e seguirla; è stata la stella a venire dove ero io e a posarsi sopra
la città dove avevo portato la mia famiglia a passare il Natale. Avrete
senz’altro già indovinato il nome della città: Amalfi. Qui un’enorme stella
risplendente di fuochi d’artificio appare d’improvviso alta sulla città alla
mezzanotte della vigilia di Natale e lentamente discende, per mezzo di un cavo,
lungo le pendici della montagna, fino alla piazza della cattedrale, illuminando
la città come se fosse un gigantesco presepe napoletano, una Betlemme
italianizzata in dimensioni umane.”
Di questa stella cometa, in competizione tra Amalfi e Atrani, s’è occupato
tante volte, nel corso di una ultracinquantennale militanza nel mondo della
carta stampata, sempre attento alle vicende del nostro territorio, Luigi de Stefano. I suoi articoli sono destinati
a diventare, con lo scorrere del tempo, fonti indispensabili per gli storici
del domani. Come, spero, anche i miei.
Di de Stefano vi leggo: Ecco l’incontro delle comete (da Il
Mattino, 23 dicembre 1990).
“Due stelle comete per due paesi: compariranno,
a mezzanotte in punto di domani, nel cielo di Amalfi e in quello di Atrani
senza, però, che tra i due eventi ci sia un minimo di coincidenza. Miracolo di
Natale? La gente fa finta di crederci pur sapendo del piccolo trucco che gli
Atranesi ripetono, puntualmente, tutti gli anni perché quanti lo vogliono, e
specialmente i turisti, possano assistere anche alla loro festa in onore di
Gesù Bambino. Niente di magico, comunque, e tantomeno di macchinoso ma
solamente le lancette dell’orologio municipale (sulla facciata del Salvatore
dove venivano incoronati i Dogi) che stranamente si ritrovano indietro di
mezz’ora. Entrambi gli appuntamenti, del resto, sono veramente da non perdere.
È la stella che scivola lentamente sui tetti antichi lasciandosi indietro un
fantastico scintillio di argento ed oro. Le case sono illuminate da una tenue
luce riflessa, che disegna il paesaggio di un grande presepio. Le zampogne
suonano in concerto mentre i fuochi di artificio si frantumano in mille
colori.”
Una bella ricostruzione del Natale ad
Atrani ce la offre Gerardo Gambardella
in un libro edito nel 1999 (Ricordi di
Atrani):
“… l’interesse di quei giorni era
unicamente diretto alla preparazione del presepe, per renderlo vivo,
palpitante, con una grotta che avrebbe dovuto significare l’umiltà con cui si
era presentato al mondo quel Bambino, divenuto, per i credenti, Gesù Nazareno.
In tale ottica, sia nelle tre principali chiese del paese, che in tante
famiglie, si preparava il presepe con tanto impegno e devozione. È ovvio che le
dimensioni erano diverse, così come l’impostazione della natività. La chiesa
del Carmine aveva ereditato un patrimonio di pastori dalle vecchie generazioni,
per cui il presepe si distingueva per l’immagine che andava ad offrire.
Nell’800, l’artigiano che si dedicò a tale realizzazione, era anche riuscito a
prendersi qualche ‘rivincita’ su qualche signorotto del paese, in quanto la
preparazione del presepe era diventata l’unica occasione per dimostrare il
comportamento tenuto da questo o dal quel personaggio, specie nei confronti
della gente del paese. Così in tale presepe, alcuni pastori riuscivano così
bene a raffigurare i personaggi del luogo, con i loro pregi e difetti, tanto
che non era difficile individuarli. Ad esempio, ad un notaio che era vissuto
dimostrandosi altezzoso e superbo, l’artigiano si era divertito facendogli
indossare il mantello a ruota del pecoraio, mentre ad una popolana, certa
‘Cristina ‘e catolla’ che, invece, aveva dimostrato di avere delle doti
particolari, le aveva trovato il posto privilegiato, vicino alla grotta,
appunto per lasciare intendere che il Bambino Gesù preferiva essere circondato
da gente umile, che avesse più fede, che ricchezze.”
Luigi Di Lieto, in C’era una volta un paese, pubblicato nel
1979, ci dà uno spaccato di quella che era la società minorese, fatta di ricchi
e poveri, come in altri posti, dell’immancabile signurino che, quando faceva la sua passeggiata fino alla Riola,
erano due file di berretti che si abbassavano.
“I pastai, i braccianti, i cartai si
presentavano a palazzo la domenica per la paga. Il capo-mastro li faceva
attendere e frattanto affidava a questo e a quello varie commissioni anche
faticose, tutte ‘comprese nel prezzo’. Verso mezzogiorno, quando il padrone si
era alzato e sbarbato, ricevevano non sempre il saldo del loro avere; spesso un
acconto o… un rinvio. Immaginarsi allora che allegria a casa di quei poveretti
ove non si poteva mettere granché sul fuoco! […] Per
riconfermare la propria superiorità ed in certo modo per farsela perdonare, le
famiglie del privilegio – oltre l’elemosina spicciola – organizzavano
‘l’appuntamento col tornese’ (Nota
dell’autore: un tornese valeva due centesimi. Con due tornesi e mezzo, cioè un
soldo, si comprava un mazzo di ravanelli e due di insalata; oppure le cinque
manciate da Rachele: Una di ceci, una di noccioline americane, una di semi, una
di prugne secche, una di lupini).
Ho parlato con un vecchietto che da
ragazzo non mancava mai a quel rito. L’attesa durava dal mattino. Verso
mezzogiorno un servo o un famiglio distribuiva il tornese ai questuanti.
’E signure vonne bene ’e puverielle ’a dummeniche ’nce danno ’o turnesielle!
si cantava la notte di Capodanno!”
Il Natale amalfitano ce lo racconta, da
par suo, Gaetano Afeltra (Natale ad Amalfi, De Luca, s.d.):
“Il Natale ad Amalfi arrivava molto
prima della nascita del Bambino. Da pochi giorni era passata la festa di tutti
i Santi e si udivano ancora per le vie le grida dei caldarrostai che per pochi
soldi riempivano cartocci di castagne appena tolte dalla piastra bucherellata,
sotto la quale ardeva la brace. Intanto, uscendo come forsennati dal forno, due
garzoni, che portavano sul capo un recipiente tondo, urlavano: “’O pizzaiuolo!
È cavla ’a pizza, è cavla ’a pizza!” (cioè: Il pizzaiuolo. È calda la pizza, è
calda la pizza!). Dai balconi o dai portoni si affacciava qualcuno: chiamava,
comprava e la famiglia mangiava. La cena, talvolta, era tutta lì. E mentre gli zampognari e i suonatori di
ciaramella diffondevano per tutto il paese gli assordanti suoni natalizi, nelle
vetrine dei dolcieri apparivano pile di torroncini e “sosamelli”, un dolce
durissimo da sciogliersi in bocca, a forma di una ‘S’ maiuscola, fatto con un
impasto di miele, farina, mandorle e cedro candito. Era già Natale. […] Il presepe
si cominciava ad allestirlo l’otto dicembre, giorno dell’Immacolata, ma anche
in questo caso le operazioni preparatorie iniziavano prima. Si acquistava la
carta, quella ruvida, spigolosa, delle cartiere amalfitane, che doveva fare da
sfondo, come una catena di monti. I grandi fogli venivano dipinti con una tinta
marrone; poi si lasciavano asciugare, quindi li si ridipingeva a strisce
con
venature rossicce, bianche e azzurrine, in modo da farli somigliare proprio al
colore delle montagne. Quindi ci si procurava la terra verde a zolle, che
serviva a creare la superficie erbosa del presepe.
Quello della vigilia è il giorno più
natalizio del Natale. Due sono gli eventi principali della giornata: il pranzo
della sera e la Messa di mezzanotte. Il pranzo è l’impegno maggiore: dalla sua
consistenza, dal numero di pietanze, dalla varietà dei cibi – tutti di magro
perché giorno di digiuno – si misura il peso sociale la condizione di una
famiglia. Ne nasce così una gara tra ricchi e poveri e per ventiquattr’ore, chi
più chi meno, tutti sono uguali.”
Può capitare, ed è capitato purtroppo,
che questa festività si sia incrociata con avvenimenti drammatici. Come quello
riferito da Edward Morgan Forster in
The Story of a Panic: la frana che
coinvolse un’ala dell’albergo Cappuccini. Lo stesso episodio lo troviamo più
dettagliatamente descritto ne La prova
del fuoco (più esattamente, ne Il
miracolo) di Marie Luise Kaschnitz
attraverso la testimonianza di don
Crescenzo Gambardella, il proprietario dell’hotel santa Caterina. È una pagina triste che non mi va di leggere
in questa sede. Stralcio solo la parte che descrive le tradizioni della festa.
“Il nostro Natale […] è
una festa molto chiassosa, molto allegra. Il Bambino Gesù viene portato in
processione nel suo scrigno trasparente mentre la banda suona. Per ore e ore si
sparano i mortaretti, e l’eco di questi spari viene restituito dalle montagne,
così che si sente come il fragore di un’immane battaglia. Nel cielo s’innalzano
razzi che si schiudono come gigantesche palme e ricadono a valle in una pioggia
di stelle. I bambini urlano e piangono, e il mare con le sue scure onde
invernali mugghia così forte come se singhiozzasse e cantasse per la gioia.
Questa è la nostra festa di Natale, e tutto il giorno passa fra i
preparativi. I ragazzi preparano i loro piccoli fuochi d’artificio, e le
ragazze intrecciano ghirlande e puliscono i pesci argentati che pendono dalla
statua della Madonna. In tutte le case si frigge, s’inforna e si mescola
sciroppo dolce.”
Di Afeltra
mi piace anche il racconto del suo primo Natale a Milano, trascorso a casa del
dottore Francesco Nastri. Che aveva
una strana abitudine. Teneva nell’anticamera l’attaccapanni pieno di cappelli e
cappotti. Servivano per “dar fiducia ai clienti”. Un medico
che ha lo studio affollato per la gente è sicuramente bravo.
“Ciccio aveva fatto il presepe con i
pastori, la grotta con la Madonna e san Giuseppe e nella piccola mangiatoia il
Bambino Gesù con accanto il bue e l’asinello. In anticipo, erano arrivati i re
Magi. La signora Flora preparò un pranzo tipicamente amalfitano, zeppole
comprese. Naturalmente il panettone c’era, ma con qualche critica. ‘D’accordo’
diceva Ciccio, ‘a Milano è d’obbligo, però vuoi mettere le nostre zeppole?
Quelle sono belle morbide, questo è buono sì, ma se non bevi subito t’affoga’. […] Tra
noci, fichi al cioccolato e torroncini, quella sera Ciccio, solo di Amalfi
parlava. Mano mano la malinconia gli affievoliva la voce. A un certo punto
disse: ‘Be’, cerchiamo di essere allegri, sentiamo un disco!’. Mise una vecchia
canzone che in questi ultimi anni Mario Merola ha rimesso in voga. Un emigrante
divorato dalla nostalgia, prega la madre lontana di preparare anche per lui il
posto a tavola e conclude:
a nuie napulitane
pe’ nuie ca ce chiagnimmo ’o cielo ’e Napule
comme è amaro stu ppane!”
Tralascio di parlare di gastronomia, un
tema al quale spesso s’è dedicato il nostro caro, indimenticabile don Gaetano Afeltra, per non invadere
un terreno che è egregiamente coltivato da Ezio Falcone. Non posso fare a meno,
tuttavia, di accennare a Mario Stefanile,
altro splendido cultore della materia. Ma lo faccio solo per spendere qualche
parola a proposito di un suo delizioso racconto, Natale per signore malato (De Luca, 1989). Stefanile sottolinea innanzitutto che il Natale napoletano porta
sulle tavole di tutti una realtà culinaria di gran lunga superiore alle
fantasiose tavole a colori dei più famosi trattati di alta cucina, delle
enciclopedie e dei dizionari per ghiottoni.
Era Natale quando l’autore si ritrovò alla Taverna dei quattro venti con don
Michele, un signore, chiaramente facoltoso, che volle raccontargli la sua
storia.
“Da dodici anni io sono a dieta. … Sì,
sì, a dieta. Il medico di famiglia che mi scoprì tutti i malanni che vi ho
detto (diabete, insufficienza epatica, gastrite, ulcera duodenale, anche qualche
altra cosa che non ricordo bene, nota Stefanile) si chiamò in disparte mia
moglie, disse: ‘Signora Teresa, se volete salvare la vita di vostro marito,
badate a ciò che mangia, per carità. Il più piccolo errore gli potrebbe essere
fatale, la più piccola intemperanza lo ucciderebbe di colpo, a tavola. Brodini
vegetali, mozzarelle, pane azzimo, niente fumo, niente vino, niente caffè. Soprattutto niente maccheroni, mai. I
maccheroni lo porterebbero alla tomba in pochi giorni. Speriamo bene, signora’.
Mia moglie diventò la vestale, la
sacerdotessa di quel verbo clinico, i miei figli crearono una barriera di ferro
fra me e i polli, fra me e gli arrosti, fra me e il maiale, fra me e il vino,
fra me e i vermicelli. Io amo mia moglie, io amo i miei figli, io rispetto i
medici. Che fare, amando anche i polli e il maiale, il soffritto e le salsicce,
l’anguilla e il cefalo? Mi metto a dieta, da dodici anni sto a dieta. Da dodici anni non
tocco più una sola forchettata di spaghetti, allontano con disdegno la zuppiera
ricolma di buoni maccheroni stufati o al gratin, non voglio mangiarli nemmeno
come ripieno ai peperoni secondo l’antica e gloriosa ricetta del Marchese di
Campolattaro.
Sto a dieta a casa, amico mio. Seggo a
tavola, obbedisco a mia moglie bevendo acqua minerale, ingollando nauseabondi
brodini, masticando gommosi latticini. Vado a letto come un angiolo di
sessantasette anni, ma sazio. Sazio perché la mattina esco con Raffaele [l’autista, n.d.r.],
in macchina e con lui me ne vado a zonzo
per i dintorni di Napoli. A mia moglie dico che esco per affari ma il solo
affare che tratto, con Raffaele, è quest’affare qui (affondò la forchetta nel
groviglio di verdure della superba minestra maritata, l’immortalissimo ‘pignato
grasso’ di noi napoletani). Mangio maccheroni al forno o lasagna imbottita o
pasta e ceci o zuppa di fagioli, mangio soffritto e salsicce, mangio cotiche
ripiene di uva passa e pinoli (Ce le mangeremo insieme un giorno?…) oppure
mangio cosciotti di agnello o piccioni ripieni e saraghi al forno e orate ai
ferri e triglie al cartoccio, e bevo. Bevo, amico mio: Mondragone e Solopaca,
Asprinio e Monte di Procida, Gragnano e Vesuvio, bevo, beviamo, io e Raffaele,
povero vecchio che per amor mio si sacrifica anche lui. Poi ce ne torniamo a
casa, qualche volta dico a mia moglie: ‘Ma, Teresa, tu non badi alla mia dieta!
È meglio che io non faccia colazione, lasciamo stare, la salute prima di
tutto’. Così da dodici anni io rendo felice mia moglie, lascio tranquilli i
miei figli, rendo orgoglioso il mio medico che mi batte una mano sulla spalla e
mi dice: ‘Vedete, carissimo don Michele, a che serve la dieta? A tenervi in
vita sano e felice, allegro e in carne’.
Nel 1960, a cura dell’Azienda di soggiorno e turismo, fu
sistemato sul fondo marino, all’interno della Grotta dello smeraldo, un artistico presepe, realizzato da Matteo Di Lieto: il grande maestro
ceramista, che è stato ricordato poche sere fa ad Atrani con un appassionato
discorso di Angelo Amato. Anche per don Matteo, che era un personaggio
eccezionale, eclettico, con interessi che spaziavano dalla ceramica alla
musica, bisognerà pensare a una mostra. Quando si realizzò l’idea di un presepe
subacqueo, l’Azienda turismo si avvalse della collaborazione di Andrea Pittiruti, che eseguì delle
suggestive riprese televisive per conto della Rai e organizzò il primo raduno
di sub per l’omaggio a Gesù Bambino, raduno che puntualmente si svolge ogni
anno.
Nacque così una nuova tradizione, che
non s’è mai interrotta. Quel presepe, semidistrutto dalle mareggiate, che
immancabilmente si riflettono all’interno della grotta, dovette però essere
rimosso e sostituito con un altro, nel 1987, dono di Arechi Arte di Salerno. Le statuine furono eseguite da Ennio Bacchilega e portate a cottura
nella fornace Arredo Ceramica di Andrea Guarino.
Nel 1982 vi fu il collegamento con la
trasmissione televisiva Portobello,
per l’occasione dedicata in modo particolare ai bambini. E, come sottolineava Luigi de Stefano sul Mattino di quel 19 dicembre (Natale a Portobello), esso diede modo di
portare un “pizzico di Amalfi” in tutte le case d’Italia e forse, pure, in
quelle di molti paesi stranieri.
La Grotta
dello Smeraldo è una delle meraviglie della Costiera e va reso merito a Ruggiero Francese di averne avviato la
valorizzazione. Avremo modo, forse, di parlarne in qualche altro contesto.
A proposito della Grotta dello Smeraldo, immaginatevi quanto mi abbia fatto piacere
ritrovarla in un lavoro teatrale, che s’intitola Canadà, di Cesare Giulio
Viola (Canadà, tre atti, Mondadori, 1950), il commediografo che amava Positano e vi morì mentre si godeva la
vista del mare sul terrazzo di casa: capitò che la tela della sdraio, sulla quale
era seduto, si squarciò ed egli batté la testa sul pavimento.
Sentite questo breve dialogo tra i
protagonisti della commedia, Joe e Olga:
“OLGA. E perché dici queste cose? (fissandolo)
Dimmi che mi vuoi bene… Mi fa piacere sentirmelo dire…
JOE. Ti voglio bene…
OLGA. Non così… Come quella sera, ti
ricordi, a Roma… Come quel giorno ad Amalfi, nella grotta dello Smeraldo… Io
voglio tornare ad Amalfi e voglio comprarmi quella grotta, e voglio murarla
perché nessuno c’entri più… Dimmi che mi vuoi bene come allora… È vero, Joe?”
Dalle tante vecchie carte che riempiono
la mia casa, ho tirato fuori un mio articolo del 24 dicembre 1955 (Natale in Costiera, Il Quotidiano).
Desidero sottoporvelo semplicemente perché tratta di due personaggi che, in
quei lontani anni cinquanta, furono autentici pionieri nella organizzazione dei festeggiamenti natalizi nella
nostra città.
“In costiera il Natale acquista un
folklore tradizionale, originale, che si tramanda col tempo ed anzi accresce in
fantasia e in poesia.
Natale senza neve, senza freddo, direi
quasi… primaverile. Ad Amalfi è una festa tranquilla che si trascorre in
famiglia. Ma nella notte del 25 dicembre, tutti nelle strade, allegri, tra lo
scoppiettio di mortaretti e tracchi a vedere la stella, che si accende
puntualmente a mezzanotte, dalle alture del monte Tabor. È una grande stella di
fuoco, che si incendia tutto a un tratto tra l’entusiasmo di grandi e piccini,
proprio nel momento in cui, sulla sommità della scalea del Duomo, l’Arcivescovo
esce sull’atrio a benedire la folla, tenendo in mano la statua del bambinello
Gesù che andrà poi a deporre nel presepio appositamente costruito sull’altare
maggiore.
Da quel momento è Natale. Ma coloro che
da anni si sono assunti ad Amalfi il compito di creare l’atmosfera del Natale
sono don Luigi Amendola, altrimenti detto ‘Barracca’, e Gigino Nastri. Essi
vivono esattamente per trecentosessanta giorni dell’anno pensando a quel che
devono inventare per la notte di Natale.
Essi, ‘Barracca’ e Gigino Nastri, questa
notte saranno i registi, i comandanti del campo. Impartiranno ordini,
accenderanno la prima fiaccola. Poi, anch’essi, saranno a guardare la scena.
Soddisfatti del proprio lavoro.
Domani, mentre qualcuno si fermerà
ancora a guardare lo scheletro di legno della “stella”, oppure le macchie di
zolfo sull’asfalto della strada, essi saranno tornati alle loro occupazioni,
‘Barracca’ a sorridere ai clienti nel suo ristorante in piazza dei Dogi, Gigino
Nastri a salutare i turisti al posteggio di piazza Flavio Gioia.
Poi, verso le prime ore del pomeriggio,
s’incontreranno come al solito in piazza Duomo. Per un istante soltanto. Se
pioverà, “Barracca” ospiterà Gigino sotto il suo ombrello, su cui risalteranno,
dipinte a caratteri cubitali, frasi inneggianti alla sua cucina e al suo
ristorante.
E la sera, magari, Gigino andrà a
salutare il suo amico in piazza dei Dogi, berranno un bicchiere. Non troppo,
altrimenti le idee per il prossimo Natale di annebbieranno. Ed essi a questo ci
tengono.”
Qualche cenno, ora, e spero di non
avervi stancato, alla Canzone de lo Capo
d’anno, che ebbi il piacere di vedere stampata da De Luca, su carta d’Amalfi, con la mia introduzione. Testo poi
riproposto in un volumetto (Lya Ferretti,
gran Natale alla napoletana, 1988)
dall’editore Franco Di Mauro di
Sorrento.
La Canzone
de lo Capo d’anno, nella versione più classica, che in linea di massima
corrisponde a quella ritrovata nella biblioteca di Benedetto Croce, e da me riproposta, noi la compravamo, ragazzi, da
Andrea Savo, ed era stampata dalla
tipografia Dipino.
Io mi limito a dire che essa ha subito
continui aggiornamenti, legati alle situazioni contingenti. I più significativi
recano la firma di Ruggiero Francese,
che nel 1946, lanciò il Capodanno dei
lavoratori, e da Tonino Mormile,
che nel 1985 creò il gruppo folcloristico Costiera
unita.
Dal Capodanno di Francese stralcio soltanto qualche strofa:
Venette lu Messia
c’ ’o voie, ’o
cucciariello
li Maggi, ’o Vicchiariello
e la Madonna.
Dalla luntana sponna
na voce se
sentette,
’na luce se vedette
lucente assai.
Nun s’era visto mai
’nu fatto accussì
strano,
’o munno sano sano
s’arrevutaie.
’O popolo alluccaie:
Evviva
l’uguaglianza,
l’eterna fratellanza
e la giustizia.
Evviva l’amicizia
tra ricco e
puveriello;
’nu cielo pe’ mantiello
tutti tenimmo.
’Na legge po’ vulimmo:
“Ccà, chi
fatica, magna!”
Pecché chesta cuccagna
troppo è durata!
Chiù d’uno, a ’sta parlata
avette ’a
cacarella,
pigliaie ’a fujariella
e fuje ancora.
E mo’ ce sta chi rire,
chi chiagne e
se dispera,
e d’ ’a matina a’ sera
nun trova pace.
E tu famme capace,
mo’ so’ dojemila
anni,
pecché chisti malanni
ce stanno ancora.
Valeva ’a pena, allora,
de mette’
’ncroce a Cristo,
si l’ommo è sempre ’nzisto
e mariuolo?
Queste invece si riferiscono a Mormile e risalgono a quando esisteva
il pericolo di trivellazioni petrolifere nel golfo:
C’è stata na scuperta
chi ’o sa se fa
carriera
’o vonne stu petrolio
a int’ ’a Custiera.
E quaccheruno à ditto:
sai quanto
simme belle
comm’ ’e sceicche tutte
cu ’a vunnella.
Nce pigliano pe’ fesse
prumesse e
giuramente
cient’anne so’ passate
senza fa’ niente.
Pareva ca pazziavene
ma ’o fatto è
veritiere
nce vonno trasfurmà
in petroliere.
Si ’e cose ccà nun cagnano
’o stato
generale
nce ne jammo tutti
in Africa Orientale.
Nuje simme gente calme
ma si nce
piglie ’o sfizio
facimme venì ’o juorne
d’ ’o giudizio.
Ma a Minori, nota Luigi Di Lieto
(C’era una volta un paese, 1979), “il
poeta più prolifico e migliore rimatore, e non soltanto per l’occasione del
capodanno, fu certamente Masto Maiurano,
calzolaio-canzoniere-canzonatore. Tutti cercavano di ingraziarselo per non
diventare oggetto dei suoi strali poetici.”
Con le strofe della Canzone de lo Capo d’anno si chiude il romanzo Il Duca di Gallodoro di Menen
Aubrey (Le Duc de Gallodoro,
Grasset, Paris, 1957), che il Centro ha acquistato di recente, nella traduzione
francese, su mia indicazione. Lo scrittore visse ad Amalfi per un lungo
periodo, verso la metà degli anni cinquanta, e vi ambientò parte della storia.
“Peppino – la traduzione, approssimativa, è mia – si
scostò un po’ dal Duca e si mise a cantare, rivolto in particolare allo stesso
Duca: Aprimme l’anno nuovo / cu tricchi-tracche e botte / passammo chesta
notte / in allegria. I suoi amici
ripetettero gli ultimi due versi in coro, seguendo il ritmo e le percussioni
del tamburo, il fracasso dei serra-serra, annunciando al Duca con una vecchia,
semplice e deliziosa melodia che nell’attesa del nuovo anno si sarebbe
trascorso la notte gioiosamente. In allegria. Il Duca si mise a cantare con loro a voce alta e chiara. I ragazzi,
scambiandosi sguardi e sorrisi, si spostarono dal muro per raggrupparsi intorno
a Peppino e al Duca, senza smettere di suonare con i loro strampalati
strumenti. Nascette lu Messia
iniziarono a cantare il Duca e Peppino, mentre il ragazzo fissava le medaglie
scintillanti sull’abito del Duca e il Duca guardava il ragazzo. Avenne
puveriello. I ragazzi ripetettero questa
espressione cantando in coro che l’anno era nuovo dato che il Cristo era appena
nato, ed era nato nato molto povero.
Noi eravamo ignorati, in quanto i
giovani musicisti accordavano i loro ritmi con la voce particolarmente bella
del Duca. Ma quando attaccarono, con brusii, stridori, tintinnii, l’ultima
strofa, ci unimmo pure noi al canto.”
Consentitemi di chiudere il mio
intervento con una testimonianza d’affetto verso un amico, che pure ha dedicato tanta parte della
sua vita a raccontare la Costiera, a tramandarne la storia, la cultura, le
tradizioni.
Questo amico è Luca Vespoli. Nel gennaio del 1982, Luca raccontò, in un articolo su Nuovo Sud, come si canta il Capodanno a Nocelle. Proprio
a Nocelle, 430 metri sul livello del mare, avulsa – allora – dal resto del
territorio comunale e dalle varie attività turistico-economico-commerciali
perché di difficile raggiungimento. E forse proprio per questo custode di riti,
costumi, usanze di una autenticità assoluta, trasmessi da una generazione
all’altra.
Scriveva Vespoli: “Quando noi, giovanetti, partecipavamo a
queste manifestazioni popolari fummo più volte tacciati di provincialismo e,
sì, anche di cafoni. Poi, guarda caso, c’è stata la grande scoperta di queste
bellissime tradizioni che non è azzardato dire vecchie quanto la nascita dei
paesi dove esse sono radicate, ed i denigratori di allora non hanno perso
tempo: si sono autoproclamati quali veri depositari della cultura popolare. E
noi? Purtroppo – ironia della sorte – siamo rimasti i provinciali e cafoni di
sempre e questa volta anche con l’aggiunta dell’aggettivo: Stupido perché non
abbiamo capito quale grande cultura popolare avevamo in casa e non l’abbiamo mai
propagandata”.
Facciamo tesoro di questo messaggio.
© Sigismondo Nastri
Nessun commento:
Posta un commento