Pubblico qui il testo del mio intervento alla
presentazione del libro "Onestà, che rara virtù!" di Angelo Tajani,
dedicato al padre don Michele Tajani.
Amalfi, Hotel Luna
Domenica 8 dicembre 2013, ore 18.00
Presentazione di “ONESTÀ, CHE
RARA VIRTÙ!” di Angelo Tajani
in ricordo del padre, MICHELE TAJANI
Il frontespizio del libro con gli aforismi e l'immagine di don Michele Tajani |
Comincio dal
titolo di questo libro – stampato da De Luca (ma chi altro avrebbe potuto
stamparlo?) – col quale Angelo Tajani ha voluto ricordare il padre, il caro don
Michele: “Onestà, che rara virtù!”. Un titolo che, applicato ai
nostri tempi, acquista un significato ancora maggiore, perché sembra che nella
vita pubblica, innanzitutto, nelle istituzioni, nelle attività produttive,
nella routine di tutti i giorni, il valore dell’onestà vada sempre più
scemando. Ce ne rendiamo conto leggendo i giornali, guardando la televisione.
Ma che cos’è
l’onestà? Non è solo l’osservanza del settimo comandamento: non rubare. È “una
qualità umana basata sul comportamento e su azioni trasparenti, leali e
sincere, fondate su principi morali”. L’onestà è la bussola morale
che deve guidare i passi di ciascuno. Certo, non arricchisce. Tutt’altro.
Ecco perché,
dopo una vita interamente dedicata al lavoro, don Michele Tajani – come
racconta Angelo – non lasciò nessun bene mobile o immobile. L’unica eredità la
nascose sotto il materasso: dei fogli su cui aveva scritto alcune delle
sue famose massime, con quella grafia pulita – come lo era la sua anima – che
ha caratterizzato buona parte della generazione che ha preceduto la mia. La
nostra, mi viene da affermare. Grafia pulita. Allora, nelle nostre scuole, si
insegnava una materia di cui s’è completamente persa la memoria. Bella
scrittura.
Oggi non si
scrive quasi più se non al computer, sulla tastierina dell’ipad o dello
smartphone. Una volta si scriveva prima in brutta copia – ricordo i temi – poi
si copiava in bella. Alle elementari i maestri seguivano i ragazzi in ogni
momento, come cani da presa, per correggerli, anche nel modo di impugnare la
penna, per sgridarli. In caso di inadempienza, c’erano le spalmate… Cose
impensabili oggi. Tutti i bambini hanno il cellulare e conoscono il numero del
Telefono azzurro.
Qualsiasi
elaborato doveva essere leggibile e doveva rispondere a determinati criteri di
estetica.
Sigismondo Nastri e Angelo Tajani |
Si scriveva
con i pennini inseriti nell’asticciola, da intingere nel calamaio. Spesso ci si
inguacchiava. Famoso il pennino Cavallotti, il migliore.
Poi uscirono
le penne stilografiche.
Dagli anni
sessanta l’avvento della biro ha dato l’addio alla bella scrittura. S’è
cominciato a scarabocchiare. E ne hanno approfittato i medici, rendendo
incomprensibili le loro prescrizioni.
|
Verso la
metà degli anni cinquanta facevo le prime esperienze di lavoro nella tipografia
di don Andrea De Luca, vicino agli arsenali. In ufficio, con Peppino. Lo
ricordo bene don Michele quando tornava dai lunghi giri che lo impegnavano da
un capo all’altro della Calabria, specialmente nella parte più meridionale.
La provincia di Reggio Calabria. Doveva essere stata una fatica
incredibile, con i treni di allora, e con tempi di percorrenza pazzeschi.
Eppure egli non appariva mai stanco, conservava integra la sua serenità. Ci
consegnava i fogli di commissione, si faceva garante dei desiderata dei
clienti, puntualmente annotati in calce all’ordine. Replicava con una delle sue
massime a qualche osservazione di Peppino, attinente alla esecuzione di quegli
ordini. Peppino e noi che lavoravamo in quell’ufficio – io, Salvatore
Fusco, Gerardo Ruocco, qualche altro che mi sfugge – avevamo un grande rispetto
per don Michele, sia perché c’incuteva soggezione la sua figura ieratica,
austera, da autentico signore di antico stampo, nonostante fosse tutt’altro che
un gigante, sia perché lo vedevamo anziano, più ancora dei nostri genitori,
rispetto ai nostri vent’anni. E, a quei tempi, la deferenza di un ragazzo verso
una persona adulta era assolutamente sacra. Solo Peppino, affettuosamente, in
qualche occasione, amava stuzzicarlo, proprio per ricevere, in risposta, una
delle sue massime, sempre appropriate, sempre ad effetto.
Un'immagine della sala |
Sugli
aforismi di don Michele – alcuni sono trascritti nella prima pagina di questo
libretto – io un’idea me la sono fatta. In larga misura sono originali,
genuini, partoriti dall’estro, dalla fantasia, dall’intuizione felice di don
Michele e attengono alle sue esperienze di vita e di lavoro. Gli aforismi gli
servivano per “legare” subito con l’interlocutore, in questo caso il potenziale
acquirente della merce che offriva, per creare con lui un rapporto di
cordialità e simpatia. Oggi ci sono gli spot televisivi, i messaggi
pubblicitari sui giornali, sulla rete. Allora tutto era fondato sul contatto
umano. E il rappresentante di commercio doveva essere, innanzitutto, un buon
comunicatore. In questo, don Michele era maestro.
Lo immagino
alle prese con un cliente di età un po’ avanzata, a discutere di fogli da
avvolgere o buste o semplicemente di carta intestata. Ecco che il discorso
dell’interlocutore scivola sugli acciacchi della vecchiaia e magari su qualche
“rattuseria” che non riesce a soddisfare. Don Michele interviene con la sua
filosofia: «Caro signore, dovete sapere che “nell’autunno della vita
dell’uomo tre cose crescono e tre diminuiscono: Si allungano le sopracciglia e
si accorcia la vista. Si allungano le orecchie e diminuisce l’udito. Si allunga
il romano e si accorcia la stadera”». Una risata reciproca, contemporanea,
apre le porte all’ordinazione da portare ad Amalfi alla tipografia De Luca.
Ma come
faccio a spiegare l’allegoria ai giovani che non sanno che cos’è una stadera?
È una bilancia di origine romana basata sul principio delle leve: una leva a
bracci diseguali e un fulcro, in genere, fisso. Sul braccio più lungo, sul
quale è incisa una scala graduata – chili e grammi – scorre un peso detto romano;
su quello corto può esserci un piatto o un gancio recanti l’oggetto o la merce
da pesare. Facendo scorrere il romano lungo la scala graduata si
raggiunge una posizione di equilibrio nella quale il braccio graduato si pone
in modo orizzontale. A questo punto, dalla posizione del romano, si
rileva il peso. Con l’asta pendente, invece, il romano precipita
inevitabilmente nella posizione più bassa. Fuori uso, mi viene da dire.
Oltre a
elaborarne di propri, originali, genuini – ma questa, ripeto, è una solo una
mia ipotesi –, don Michele ha tratto aforismi dalle sue letture. Magari, in
treno, durante i lunghi e stressanti spostamenti.
Dico questo
perché “Tacere di sé è umiltà…” è un passo de “L’imitazione di
Cristo” di San Giovanni della Croce.
“A can che
lecca…” è il titolo
di una commedia di Giuseppe Giacosa.
“Angelin,
bellin bellino…” è una
preghiera-filastrocca per bambini diffusa in varie parti d’Italia.
Poi ci sono
aforismi che sono tipici di certi paesi della Calabria e della Sicilia
settentrionale, che don Michele attraversava: come “Povera quella casa dove
la gallina canta e il gallo tace”.
Carlo De Luca e Angelo Tajani |
Quello della
“lapide a un avaro…”, in un’altra versione, fa così: “Qui giace il
matematico Angelo Marini: addizionò, moltiplicò, mai sottrasse. Gli eredi,
riconoscenti, divisero”. Di questa strana, quanto improbabile
epigrafe funeraria ha avuto modo di occuparsi nientepopodimeno che il
cardinale Gianfranco Ravasi quando era ancora monsignore. Essa ci dice due cose
vere, nota Ravasi: la retorica del caro estinto, che è una prassi, quasi un
tacito e cortese accordo tra i vivi per farsi perdonare tutte le maldicenze e
le cattiverie praticate nei confronti del defunto. E poi lo sberleffo finale:
“gli eredi divisero”. La lezione che c’impartisce questo aforisma
– sottolinea Ravasi - è aspra nella sua verità. E aggiunge: “Quante volte ho
visto preziose biblioteche frazionate e disperse per l'avidità degli eredi;
quanto spesso case piene di ricordi e di oggetti significativi vengono
devastate per ricavarne subito denaro; quanti beni accumulati con fatica sono
presto dilapidati”.
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“La botte si
risparmia quando è piena non quando sta per finire” completa e rende comprensibile
un’espressione diffusa in Calabria: “A vutta si risparmie quann’è chjina”.
Addirittura
ho trovato che il detto “Il buon guaglione (o garzone) fa il buon padrone” richiama
quello in uso nel bresciano: “E’ l bù padròn il fa i bù garzù”.
Insomma, gli
aforismi di don Michele erano strumento del suo lavoro, rappresentavano le
fondamenta della sua filosofia e del suo stile di vita, erano prova concreta
della sua erudizione.
Ed è giusto
che Angelo - non solo lui, anche i fratelli Riccardo e Claudio, la sorella
Mariafranca – gliene diano testimonianza. E gliene siano riconoscenti perché
egli è stato per loro – lo è per tutti noi che lo abbiamo conosciuto – maestro
di vita e di buone maniere.
Sigismondo Nastri
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