lunedì 9 dicembre 2013

“ONESTÀ, CHE RARA VIRTÙ!”, IL RICORDO DI DON MICHELE TAJANI AD AMALFI





Pubblico qui il testo del mio intervento alla presentazione del libro "Onestà, che rara virtù!" di Angelo Tajani, dedicato al padre don Michele Tajani.
Amalfi, Hotel Luna
Domenica 8 dicembre 2013, ore 18.00
Presentazione di  “ONESTÀ, CHE RARA VIRTÙ!”  di Angelo Tajani
in ricordo del padre, MICHELE TAJANI


Il frontespizio del libro con gli aforismi
e l'immagine di don Michele Tajani
Comincio dal titolo di questo libro – stampato da De Luca (ma chi altro avrebbe potuto stamparlo?) – col quale Angelo Tajani ha voluto ricordare il padre, il caro don Michele: “Onestà, che rara virtù!”. Un titolo che, applicato ai nostri tempi, acquista un significato ancora maggiore, perché sembra che nella vita pubblica, innanzitutto, nelle istituzioni, nelle attività produttive, nella routine di tutti i giorni, il valore dell’onestà vada sempre più scemando. Ce ne rendiamo conto leggendo i giornali, guardando la televisione.
Ma che cos’è l’onestà? Non è solo l’osservanza del settimo comandamento: non rubare. È “una qualità umana basata sul comportamento e su azioni trasparenti, leali e sincere, fondate su principi morali”.  L’onestà è la bussola morale che deve guidare i passi di ciascuno. Certo, non arricchisce. Tutt’altro.
Ecco perché, dopo una vita interamente dedicata al lavoro, don Michele Tajani – come racconta Angelo – non lasciò nessun bene mobile o immobile. L’unica eredità la nascose sotto il materasso:  dei fogli su cui aveva scritto alcune delle sue famose massime, con quella grafia pulita – come lo era la sua anima – che ha caratterizzato buona parte della generazione che ha preceduto la mia. La nostra, mi viene da affermare. Grafia pulita. Allora, nelle nostre scuole, si insegnava una materia di cui s’è completamente persa la memoria. Bella scrittura. 
Oggi non si scrive quasi più se non al computer, sulla tastierina dell’ipad o dello smartphone. Una volta si scriveva prima in brutta copia – ricordo i temi – poi si copiava in bella. Alle elementari i maestri seguivano i ragazzi in ogni momento, come cani da presa, per correggerli, anche nel modo di impugnare la penna, per sgridarli. In caso di inadempienza, c’erano le spalmate… Cose impensabili oggi. Tutti i bambini hanno il cellulare e conoscono il numero del Telefono azzurro.
Qualsiasi elaborato doveva essere leggibile e doveva rispondere a determinati criteri di estetica.
Sigismondo Nastri e Angelo Tajani
Si scriveva con i pennini inseriti nell’asticciola, da intingere nel calamaio. Spesso ci si inguacchiava. Famoso il pennino Cavallotti, il migliore.
Poi uscirono le penne stilografiche.
Dagli anni sessanta l’avvento della biro ha dato l’addio alla bella scrittura. S’è cominciato a scarabocchiare. E ne hanno approfittato i medici, rendendo incomprensibili le loro prescrizioni.
Verso la metà degli anni cinquanta facevo le prime esperienze di lavoro nella tipografia di don Andrea De Luca, vicino agli arsenali. In ufficio, con Peppino. Lo ricordo bene don Michele quando tornava dai lunghi giri che lo impegnavano da un capo all’altro della Calabria, specialmente nella parte più meridionale.  La provincia di Reggio Calabria. Doveva essere stata una fatica incredibile, con i treni di allora, e con tempi di percorrenza pazzeschi. Eppure egli non appariva mai stanco, conservava integra la sua serenità. Ci consegnava i fogli di commissione, si faceva garante dei desiderata dei clienti, puntualmente annotati in calce all’ordine. Replicava con una delle sue massime a qualche osservazione di Peppino, attinente alla esecuzione di quegli ordini. Peppino e noi che lavoravamo in quell’ufficio  – io, Salvatore Fusco, Gerardo Ruocco, qualche altro che mi sfugge – avevamo un grande rispetto per don Michele, sia perché c’incuteva soggezione la sua figura ieratica, austera, da autentico signore di antico stampo, nonostante fosse tutt’altro che un gigante, sia perché lo vedevamo anziano, più ancora dei nostri genitori, rispetto ai nostri vent’anni. E, a quei tempi, la deferenza di un ragazzo verso una persona adulta era assolutamente sacra. Solo Peppino, affettuosamente, in qualche occasione, amava stuzzicarlo, proprio per ricevere, in risposta, una delle sue massime, sempre appropriate, sempre ad effetto.
Un'immagine della sala
Sugli aforismi di don Michele – alcuni sono trascritti nella prima pagina di questo libretto –  io un’idea me la sono fatta. In larga misura sono originali, genuini, partoriti dall’estro, dalla fantasia, dall’intuizione felice di don Michele e attengono alle sue esperienze di vita e di lavoro. Gli aforismi gli servivano per “legare” subito con l’interlocutore, in questo caso il potenziale acquirente della merce che offriva, per creare con lui un rapporto di cordialità e simpatia. Oggi ci sono gli spot televisivi, i messaggi pubblicitari sui giornali, sulla rete. Allora tutto era fondato sul contatto umano. E il rappresentante di commercio doveva essere, innanzitutto, un buon comunicatore. In questo, don Michele era maestro.
Lo immagino alle prese con un cliente di età un po’ avanzata, a discutere di fogli da avvolgere o buste o semplicemente di carta intestata. Ecco che il discorso dell’interlocutore scivola sugli acciacchi della vecchiaia e magari su qualche “rattuseria” che non riesce a soddisfare. Don Michele interviene con la sua filosofia: «Caro signore, dovete sapere che “nell’autunno della vita dell’uomo tre cose crescono e tre diminuiscono: Si allungano le sopracciglia e si accorcia la vista. Si allungano le orecchie e diminuisce l’udito. Si allunga il romano e si accorcia la stadera”». Una risata reciproca, contemporanea, apre le porte all’ordinazione da portare ad Amalfi alla tipografia De Luca.
Ma come faccio a spiegare l’allegoria ai giovani che non sanno che cos’è una stadera? È una bilancia di origine romana basata sul principio delle leve: una leva a bracci diseguali e un fulcro, in genere, fisso. Sul braccio più lungo, sul quale è incisa una scala graduata – chili e grammi – scorre un peso detto romano; su quello corto può esserci un piatto o un gancio recanti l’oggetto o la merce da pesare. Facendo scorrere il romano lungo la scala graduata si raggiunge una posizione di equilibrio nella quale il braccio graduato si pone in modo orizzontale. A questo punto, dalla posizione del romano, si rileva il peso. Con l’asta pendente, invece, il romano precipita inevitabilmente nella posizione più bassa. Fuori uso, mi viene da dire.
Oltre a elaborarne di propri, originali, genuini – ma questa, ripeto, è una solo una mia ipotesi –, don Michele ha tratto aforismi dalle sue letture. Magari, in treno, durante i lunghi e stressanti spostamenti.
Dico questo perché “Tacere di sé è umiltà…” è un passo de “L’imitazione di Cristo” di San Giovanni della Croce.
“A can che lecca…” è il titolo di una commedia di Giuseppe Giacosa.
“Angelin, bellin bellino…” è una preghiera-filastrocca per bambini diffusa in varie parti d’Italia.
Poi ci sono aforismi che sono tipici di certi paesi della Calabria e della Sicilia settentrionale, che don Michele attraversava: come “Povera quella casa dove la gallina canta e il gallo tace”.
Carlo De Luca e Angelo Tajani
Quello della “lapide a un avaro…”, in un’altra versione, fa così: “Qui giace il matematico Angelo Marini: addizionò, moltiplicò, mai sottrasse. Gli eredi, riconoscenti, divisero”. Di questa  strana, quanto improbabile epigrafe funeraria  ha avuto modo di occuparsi nientepopodimeno che il cardinale Gianfranco Ravasi quando era ancora monsignore. Essa ci dice due cose vere, nota Ravasi: la retorica del caro estinto, che è una prassi, quasi un tacito e cortese accordo tra i vivi per farsi perdonare tutte le maldicenze e le cattiverie praticate nei confronti del defunto. E poi lo sberleffo finale:  “gli eredi divisero”.  La lezione che c’impartisce questo aforisma – sottolinea Ravasi - è aspra nella sua verità. E aggiunge: “Quante volte ho visto preziose biblioteche frazionate e disperse per l'avidità degli eredi; quanto spesso case piene di ricordi e di oggetti significativi vengono devastate per ricavarne subito denaro; quanti beni accumulati con fatica sono presto dilapidati”.
“La botte si risparmia quando è piena non quando sta per finire” completa e rende comprensibile un’espressione diffusa in Calabria: “A vutta si risparmie quann’è chjina”.
Addirittura ho trovato che il detto “Il buon guaglione (o garzone) fa il buon padrone” richiama quello in uso nel bresciano:  “E’ l bù padròn il fa i bù garzù”.
Insomma, gli aforismi di don Michele erano strumento del suo lavoro, rappresentavano le fondamenta della sua filosofia e del suo stile di vita, erano prova concreta della sua erudizione.
Ed è giusto che Angelo - non solo lui, anche i fratelli Riccardo e Claudio, la sorella Mariafranca – gliene diano testimonianza. E gliene siano riconoscenti perché egli è stato per loro – lo è per tutti noi che lo abbiamo conosciuto – maestro di vita e di buone maniere.
                                                                                             Sigismondo Nastri


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