La
barberia dei fratelli Giovanni e Salvatore D’Uva, situata in Largo Monastero
a Maiori, ha chiuso i battenti dopo oltre sessant’anni di attività ininterrotta. Il
Comune ha voluto solennizzare l’avvenimento col conferimento di una targa
ricordo ai due titolari, che apparivano particolarmente commossi. La cerimonia si è
svolta nel salone di rappresentanza di palazzo Mezzacapo, gremito di pubblico. Nell’occasione
sono stati rievocati, dal sindaco Antonio Della Pietra e dal
sottoscritto, che svolgeva il ruolo di moderatore, personaggi della vecchia
Maiori e antichi mestieri che rischiano di scomparire dalla memoria collettiva.
Ecco, di seguito, la mia testimonianza.
Quando
ero ragazzo, ad Amalfi, il mio barbiere era Vincenzo D’Alessandro, atranese.
Operava in un locale, in via Pietro Capuano, che sembrava un mastrillo, tanto era piccolo. Eppure
sulla porta aveva una vistosa tabella con la scritta Salone. Se tu, entrando, eri un po’ distratto, rischiavi di andare
a sbattere la fronte contro la parete dirimpetto.
Confesso
una mia ignoranza: ma perché le botteghe dei barbieri si chiamano salone? Il dizionario mi dà questo
significato: “Locale ampio in cui opera
un parrucchiere per uomo o signora oppure si praticano cure estetiche”. A
me non interessa parlare del parrucchiere
per uomo, o acconciatore, o hair stylist, designer, scultore, architetto della chioma, poeta
della ‘trico art’, come amano chiamarsi oggi coloro che svolgono questa
attività.
A
me interessa parlare del barbiere di
una volta, quello che Peppino De Filippo, nel film Totò Peppino e i fuorilegge, definisce “missionario”. Una
professione in via di estinzione, come tanti altri mestieri. Una professione
soppiantata dal progresso. Credo di poter dire che, per come hanno svolto la
loro attività, per sessant’anni, i fratelli D’Uva, l’appellativo di “missionari” possa essere attribuito
anche a loro.
Il salone
è stato sempre uno straordinario luogo d’incontro, di aggregazione. Lì si
discuteva (si sparlava) di tutto. Politica, sport, economia, donne. Il tempio
del pettegolezzo. Il barbiere ascoltava le confidenze dei clienti, come se
fosse un confessore. Se uno aveva bisogno di sapere qualcosa da chi andava? Da
lui. Diceva il comico siciliano Angelo Musco che “è meglio finire nella bocca di una cornuta e che in quella del
barbiere”. Il barbiere era considerato secondo soltanto al prete e spesso
ne sapeva più di lui, dato che non tutti si andavano a confessare.
A
fine anno i barbieri regalavano un minuscolo calendario a fisarmonica,
densamente profumato, con immagini a colori, quasi scolpite, di belle donne in
atteggiamenti considerati provocanti dalla morale dell’epoca. Qualcuno devo averlo ancora, conservato in un cassetto.
Spesso
i saloni erano anche scuola per chitarra e mandolino. La tradizione vuole che
il barbiere avesse una particolare vocazione per la musica. Spesso faceva parte di gruppi, chiamati ad allietare le
feste di matrimonio, che si svolgevano rigorosamente in casa.
Le
origini del lavoro del barbiere si perdono nella notte dei tempi. Presso i
romani quest’attività aveva una reputazione notevole. Il buon cittadino
dell’antica Roma gli faceva visita ogni giorno per tenersi in ordine. Per un
adolescente la prima rasatura era un evento che segnava il passaggio al mondo
adulto.
Dal
barbiere si andava, si va ancora, va per tutti i normali bisogni di pettinatura e taglio di capelli. Un po' meno, per la
barba. Ma, una volta, si ricorreva a lui anche per piccoli interventi chirurgici,
per applicare le sanguisughe (era il rimedio più seguito per contrastare l’ipertensione),
o per fare un un clistere, incidere bolle e pustole, addirittura per cavare i
denti.
Dal
Medioevo il simbolo convenzionale usato dai barbieri è il palo rotante a
strisce bianche e rosse. Passando con l’auto per il corso Garibaldi, a Salerno, se ne vede ancora uno fare bella mostra davanti a un salone.
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