Stamattina, nella cattedrale di Amalfi, al termine della messa esequiale, mi è toccato di tracciare un breve ricordo di Antonio De Luca. Un'esperienza che, finora, m'era mancata, ma - si sa - c'è sempre una prima volta.
Lo inserisco qui perché qualcuno dei presenti mi ha chiesto di averne copia.
"La morte - scrive
Rainer Maria Rilke - è il 'lato della vita' rivolto altrove da noi, non
illuminato da noi". E’ un mistero inestricabile, per quanti sforzi
possiamo fare... Inutile chiedersi: "perché?". Non ci sono neppure
parole capaci di alleviare l’angoscia causata dalla scomparsa di una persona
cara. Ci può essere d’aiuto soltanto questa speranza d’eternità, che sentiamo
come una certezza, consegnataci da Gesù Cristo con la sua risurrezione e la sua
ascesa al cielo. Penso che, se non
fossimo sorretti dalla fede, avremmo davvero motivo di disperarci. E sarebbe da disperati,
soprattutto, andarsene da questo mondo senza avere il conforto della fede.
Chiedo scusa per il
preambolo, mi serve per sottolineare che "don" Antonio De Luca – qui il don non è
retaggio di nobiltà, ma indica la stima, il rispetto che la stessa società,
coloro che lo conoscevano e lo frequentavano, gli hanno riconosciuto - ha avuto due educatori straordinari: la indimenticabile
mamma, signora Carmela, donna di
profonda sentita convinta religiosità, e il papà, don Andrea, il mitico
“tipografo dell’arcivescovo”, dal quale egli aveva appreso la “sacralità” del
lavoro (metto “sacralità” tra virgolette, sperando di poter usare l’espressione
qui senza apparire blasfemo). Lo dico
alla luce di un’esperienza diretta, perché anch’io, giovanissimo, in quella
tipografia, accanto agli Arsenali, ho
fatto le prime esperienze formative. Avendo come maestri sia don Andrea che
Antonio De Luca.
Perciò, se mi si chiede
di indicare una qualità caratterizzante di Antonio, rispondo senza indugio che era
un instancabile lavoratore. Ricordo i suoi viaggi, pressoché settimanali, in
tutto il Meridione per visitare i clienti e raccoglierne le ordinazioni. Le
serate che impegnavamo, fino a ora tarda, per allestire i campionari.
Lavoratore lo è stato fino all’ultimo giorno. Un imprenditore che sapeva
confrontarsi con i dipendenti proprio su questo piano. Ed era altresì un imprenditore di grandi capacità. Un esperto di comunicazione e di relazioni pubbliche ante litteram.
Un amico mi
ricordava ieri che, quando decise di cambiare settore di attività - da quella di
stampatore passò a quella di albergatore -, Antonio ebbe una intuizione geniale: ai
clienti che avevano scelto il trattamento di pensione completa dava la
possibilità di consumare il pranzo fuori dell’albergo, magari a Capri, a Ischia
o in altro luogo, grazie a convenzioni stipulate con operatori del settore. Forse,
questa prassi in seguito è stata fatta propria da altri albergatori, ma fino a
quel momento non ci aveva pensato nessuno.
Un’altra qualità di "don"
Antonio, che voglio sottolineare, è l’amalfitanità, costantemente sbandierata, come un vessillo. Espressa
in tutti i modi, in tutte le situazioni, in tutti i luoghi. Era il suo
distintivo. Un’amalfitanità sempre associata – e come potrebbe essere
diversamente? – al culto del nostro santo patrono, l’apostolo Andrea.
Era innamorato della
storia civile e religiosa di Amalfi – lui, cresciuto sotto l’ala protettrice
del venerato arcivescovo Mons. Marini -, si entusiasmava davanti a un quadro
che mostrasse scorci del nostro paesaggio. Conosceva nei dettagli le
vicende amalfitane - intendo fatti e personaggi – del XX secolo.
In particolare, le vicende drammatiche della seconda guerra mondiale,
combattuta anche qui, di cui portava ancora i segni. Era rimasto, infatti,
ferito nel bombardamento di Amalfi del 18 luglio 1943, appena qualche
mese prima dello sbarco delle truppe alleate. Se ho un rammarico, da
giornalista, è quello di non aver mai pensato di sollecitarlo ad affidarne il
racconto a un registratore. Si sarebbe accumulato materiale interessante per
gli storici
I momenti di pausa, di
relax, Antonio De Luca li occupava compiendo
lunghe camminate sulle strade della costiera. Qualche volta m’è capitato di
incrociarlo. Lui a piedi e la macchina con l’autista che lo seguiva a passo
d’uomo. In un atteggiamento un po’ svagato, preso da chissà quali pensieri, ma
a passo svelto e con le mani giunte, appoggiate alla schiena. “I suoi pensieri
hanno riempito la vita di tutti noi” ho letto in un necrologio. Ed è vero. Hanno
fatto bene a evidenziarlo. Ora, hanno scritto, la sua marcia s’è fermata.
Lontano lontano…
Immagino che con quello stesso atteggiamento si sia
presentato al cospetto del Signore. Che, infinitamente buono e misericordioso, gli ha
già assegnato un posto in Paradiso.
La morte, è vero, rappresenta
un brusco distacco dagli affetti terrestri: dai familiari, dalle persone
amiche. Tuttavia, ce lo insegna San
Giovanni Crisostomo, non possiamo andare a godere Dio se non attraverso la
morte. Perché è la morte che ci unisce a Dio in eterno.
Sant’Agostino, nelle
Confessioni, riferisce che la sua mamma
Monica, prima di morire, gli aveva raccomandato: “Seppellite pure questo mio
corpo dove volete, senza darvi pena. Di una sola cosa vi prego: ricordatevi di me,
dovunque siate, dinanzi all’altare del Signore”. Ed è questo il modo migliore –
anzi, l’unico modo - di ricordare il carissimo Antonio, di tenerne viva la
memoria.
Riposi in pace.
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