16 marzo 1978. Trentacinque anni fa. Una data da non dimenticare. Mai. E' quella del rapimento di Aldo Moro,
a Roma, in via Fani, e dell’uccisione dei cinque uomini della scorta. Un fatto
drammatico, in un passaggio delicato della nostra vita politica e parlamentare.
Era, infatti, il giorno della presentazione alla Camera dei Deputati del quarto
governo formato da Giulio Andreotti, quello della “solidarietà nazionale”, con il determinante
appoggio esterno del Partito comunista. Si trattava di una svolta, voluta
proprio da Moro, che l’aveva anticipata in un suo discorso: “Noi siamo in
condizione di paralizzare in qualche modo il Partito comunista e il Partito
comunista è a sua volta in grado di paralizzare in qualche misura la Democrazia
cristiana… Bisogna trovare un’area di concordia, un’area di intesa tale da
consentire di gestire il Paese finché durano le condizioni difficili nelle
quali la storia in questi anni ci ha portato”.
Da sinistra: Sigismondo Nastri, Francesco Amodio, Aldo Moro |
Il rapimento fu rivendicato
due giorni dopo con il primo dei nove raccapriccianti
comunicati delle Brigate Rosse. In 55 giorni di prigionia Moro scrisse
86 lettere (indirizzate per lo più ai familiari, a uomini
politici; ma anche a Gaetano
Afeltra, direttore de “Il Giorno”), con le quali tentò di
spingere a una trattativa per la sua liberazione. In suo favore intervennero accoratamente il papa, Paolo VI, e il
segretario dell’ONU Kurt
Waldheim. In Italia il mondo politico si divise tra quanti -
compresa una buona parte della dirigenza della Democrazia cristiana - erano contrari a ogni
ipotesi di dialogo con le Brigate Rosse, e il cosiddetto “partito
umanitario”, capeggiato da Bettino
Craxi. Vinsero, ahimé!, i "falchi"
e, conseguentemente, il presidente della Democrazia
Cristiana fu abbandonato al suo destino.
Risultato: il cadavere di Moro, assassinato dalle Brigate
Rosse, fu fatto trovare il 9 maggio, nel vano bagagli di un’auto – una
Renault 4 rossa – parcheggiata a Roma, in via Caetani, nei pressi delle sedi
della Dc e del Pci.
Moro era un uomo schivo e riservato,
quasi timido, con le sue debolezze, i suoi hobby, con un culto sacro della
famiglia. Un
uomo dotato di grande intelligenza, di straordinaria sensibilità, animato
da una profonda religiosità. Ma, nello stesso tempo, un politico
capace di vedere oltre il contingente,
di elaborare tattiche e strategie proiettate nel futuro, di mediare tra opposte
tendenze per dare un contributo fondamentale alla democrazia, alla
convivenza civile, al progresso economico dell’Italia.
Ebbi la fortuna di conoscerlo, di stringergli la mano, in occasione di una sua venuta ad Amalfi.
Lo prendano a modello - di vita e di impegno - i politici che hanno nelle mani, oggi, i destini del nostro paese. Se ne sono degni, ovviamente, se ne sono capaci.
Lo prendano a modello - di vita e di impegno - i politici che hanno nelle mani, oggi, i destini del nostro paese. Se ne sono degni, ovviamente, se ne sono capaci.
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