“Amalfi Repubblica delle lettere” (Alfredo
Guida editore, Napoli) è un libro tascabile col quale Francesco D’Episcopo ripropone all’attenzione: Elogio
di Amalfi, di Salvatore
Quasimodo (del gennaio 1966): Ragazza al Paradisetto, di Francesco Jovine (dal Nuovo Giornale d’Italia, 1946); Amalfi, Amalfi addio, di Gaetano
Afeltra (da Desiderare la donna
d’altri, Bompiani, 1985).
Conoscevo il testo di
Quasimodo, che fu stampato da De Luca su carta della cartiera Amatruda
a cura dell’Azienda di soggiorno e
turismo di Amalfi, presieduta (egregiamente,
devo aggiungere) dall’amico Giuseppe
Liuccio. Non ne sono sicuro, ma credo che all'epoca ero consigliere di
amministrazione dell’ente. Ovviamente, conoscevo bene il brano di Afeltra, come
del resto conosco tutti i suoi scritti: quei deliziosi elzeviri usciti sul Corriere della sera (ho donato l’intera
raccolta al Centro di cultura e storia
amalfitana) e poi pubblicati in volumi: non solo Desiderare la donna d’altri, ma anche Corriere primo amore, Missiroli
e i suoi tempi, Com’era bello nascere
nel lettone, Famosi a modo loro, Mordi la mela, ragazzo.
Avevo letto, a suo tempo, l'articolo di Jovine, ma
ne conservavo un vago ricordo. Sono contento di averlo, così, recuperato.
Quello che m’interessa, in particolare, evidenziare
qui è l’introduzione di D’Episcopo, che è volta sì a facilitare la comprensione
dei tre testi, ma diventa essa stessa “racconto” e, principalmente, testimonianza d’amore per Amalfi e il
suo territorio. Del resto, è proprio D’Episcopo che lo dichiara nel “prologo”: sia quando
afferma che la silloge è da intendersi “come uno scrigno prezioso, in onore di un
capoluogo dell’anima”, sia quando s’inoltra in suggestive poetiche
descrizioni: “ In pochi luoghi del mondo,
come in questo, il cielo, attraverso i suoi monti, selvaticamente verdi, si fa
mare e quest’ultimo, poco sabbioso, molto scoglioso, si fa cielo, monte, colorandosi
di un verde muschioso, in un muggito di aria e di luce, che evoca la naturale
vocazione di quei Monti Lattari, che sovrastano la Costiera e la congiungono ad
altre sponde: quella di ‘allattare’ il mondo, come una grande madre amorosa,
nata per adottare e allevare tutti i possibili figli della bellezza e dell’amore”.
E non vado oltre, per non togliere ad altri il gusto della scoperta.
A proposito dell’Elogio di Amalfi di Quasimodo, sottolineo l’accostamento che D’Episcopo
fa tra “la rigida Lombardia senza mare”,
in cui il poeta siculo viveva, e “la
Campania marina” dove egli tornava con rinnovato piacere. Dove – il riferimento ad Amalfi è più che
esplicito -, “sopra le torri saracene e
nelle arcate del mare agitato non c’è posto per la tristezza ombrata di
disperazioni dei luoghi settentrionali”. Lo confesso: questo mettere a confronto
due realtà così diverse, Nord e Sud, Monti e Mare, mi era sfuggito.
La visita al Chiostro Paradiso è raccontata da
Jovine con un realismo che ritengo straordinario, avendo conosciuto i
personaggi e le situazioni che egli tratteggia con tanto garbo, con tanta
precisione. Ho avvertito pure io, qualche volta, entrando in quel luogo, il
profumo del ragù che pippiava sulla fornacella in quello sgabuzzino che sta sulla
sinistra, subito dopo il cancello d’ingresso. Il giornalista-scrittore molisano
(che bello sapere che è stato D’Episcopo a curare la ristampa di due suoi
romanzi, in particolare Le terre del Sacramento, che vinse il Viareggio nel
1950 quando l’autore era già morto) è attento ad ogni particolare, come se invece
della penna avesse adoperato la macchina da presa. “Siamo nel cuore degli anni
Quaranta – sottolinea D’Episcopo – e il reportage joviniano si rivela
interessante per cogliere la condizione pre-turistica della Costiera amalfitana,
come di quella sorrentina. Il suo diventa, anzi, un documento singolare, nel
momento in cui registra, innanzitutto, la povertà estrema del popolo e alcuni
suoi particolari usi e costumi nella sfida a una natura non certo agevole nel
quotidiano lavoro: specialmente nel trasporto di legna, carbone, limoni”. Tanto
da avere il valore di un saggio antropologico e sociologico.
Di tutt’altro tenore l’Amalfi, Amalfi addio di Gaetano Afeltra: qui la città è presente soltanto
nel ricordo, nella nostalgia. Don
Gaetano (lo chiamavamo così) ricostruisce dettagliatamente la sua partenza da
Amalfi – con l’autobus delle cinque, poi col treno da Vietri sul Mare – e il
suo sradicamento dalla propria terra, dalla propria famiglia. Dalla madre,
soprattutto. Per trovare a Milano, dove già vive il fratello Cesare, con l’inizio del lavoro
giornalistico, che poi lo ha reso famoso, “un mondo diverso dal nostro, zeppo di
fabbriche, di gente, di treni, di donne bellissime,, di laboratori, di scuole,
di università, con strade larghe piene di luce anche di notte… negozi sempre
pieni, dovunque commesse belle e gentili, cassiere avvenenti e sveltissime”.
Era la Milano dei grandi capitani d’industria, dei
letterati e degli artisti, che s’incontravano ai tavoli del Savini o del Biffi, in Galleria.
Quella Milano “da bere”, come si
diceva, che forse non c’è più, in tempo di vacche magre. Amalfi, al giovane Afeltra, appariva lontana,
tanto lontana. Eppure egli non ha mai smesso d’amarla, neppure quando ha avuto qualche momento d’incomprensione con le istituzioni locali. Poi ha ripreso a
tornarci regolarmente. A godersi la vista della facciata del duomo, i cui
riverberi di luce si infrangevano (si infrangono) sul vetro della sua finestra, o a trascorrere
momenti di relax, tra un saluto e l’altro, e tante strette di mano, a quel tavolo del bar Savoia, all’angolo
della piazza Flavio Gioia, riservatogli da Tonino Amatruda. Sempre lo stesso,
il suo punto di osservazione del microcosmo amalfitano.
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