Rovistando
tra vecchie carte, l’altra sera, mentre dalla televisione mi arrivavano le
canzoni del festival di Sanremo, ho trovato degli appunti raccolti durante una
conversazione con Carla Capponi (Roma, 7 dicembre 1921 – Zagarolo, 24 novembre
2000) quando venne a Maiori, nel giugno 1996, per rievocare le vicende della
Resistenza. Il ricordo che conservo di lei è quello di una signora dolce,
gentile, ben diversa dalla donna dal “carattere estremamente deciso” - come la
definiva Paolo Brogi sul Corriere della sera -, vice comandante di una
formazione partigiana, capace di compiere
azioni di guerriglia contro i nazifascisti, tali da meritarle la
Medaglia d’oro al valor militare. Una signora dolce e gentile, dicevo prima,
appassionata di musica. Il colloquio
avvenne tra palazzo Mezzacapo, sede di rappresentanza del comune di Maiori,
dove io ero moderatore di quel convegno, e l’albergo Reginna, dove lei ci
deliziò con una brillante esecuzione al pianoforte,
La Capponi
è rimasta nella storia per la partecipazione all’attentato di via Rasella, a
Roma, contro un contingente militare tedesco, il 23 marzo 1944. Lei era
consapevole di rischiare la vita, ma non pensò minimamente di tirarsi indietro, o meglio, come diceva, di
sottrarsi al “gesto fatale”. Del resto
non era nuova a operazioni pericolose. Basti citare che, nell'ottobre del 1943, per
procurarsi un'arma (visto che i suoi compagni
gliela negavano, perché preferivano riservare alle donne funzioni di
appoggio), riuscì a sottrarre una pistola a un milite della GNR (Guardia
nazionale repubblicana), che si trovava vicino a lei in un autobus
superaffollato.
L’occupazione
di Roma si trascinava in un clima di violenze, in attesa che gli alleati, sbarcati
sulla costa salernitana a settembre, riuscissero a sbaragliare la dura
resistenza delle truppe naziste e a raggiungere la capitale. In Campania, da
dove esse erano state cacciate, avevano lasciato una lunga scia di sangue: milleseicento civili barbaramente trucidati.
In ogni luogo, da dove erano stati respinti, i tedeschi si erano resi
protagonisti di feroci vendette.
Ma torno
all’episodio di via Rasella. Un gruppo di partigiani, guidato da Rosario
Bentivegna, giovane studente di medicina, che poi fu suo compagno nella vita, aveva notato che una colonna di SS transitava di lì
quotidianamente, sempre alla stessa ora. Avvenne anche quel giorno: una
compagnia del I battaglione del Polizeiregiment Bozen, composta da 156 uomini,
in assetto di guerra. L'attacco ebbe
inizio con lo scoppio di una bomba al tritolo trasportata in un carretto della
nettezza urbana, fatta brillare dallo stesso Bentivegna, comandante del GAP
(Gruppo d’azione patriottica) “Carlo
Pisacane”, trasformatosi in netturbino.
Intanto altri dieci gappisti coprivano l’azione col lancio di bombe a
mano. Carla Capponi era lì, con un impermeabile sotto braccio che passò
subito a lui: gli servì per coprire l’uniforme da spazzino dopo aver
dato fuoco alla miccia. Lo scoppio causò
la morte di 32 soldati tedeschi. Più di cento i feriti. Persero la vita anche
un uomo che un bambino che si trovarono per caso a transitare per quella strada.
La
reazione tedesca fu di una spietatezza inaudita, non solo per gli spari, che
durarono più di un’ora, e devastarono finestre, balconi, persino i mobili
all’interno degli appartamenti, ma per il saccheggio compiuto in serata in
tutte le case di via Rasella. Il giorno dopo fu ordinata la rappresaglia, che
condusse alla morte 320 uomini: duecento, prelevati dal terzo braccio del carcere di Regina
Coeli, controllato dall’autorità tedesca; cinquanta erano funzionari politici
che dipendevano dalla polizia fascista; settanta, scelti tra le persone
arrestate dopo l’attentato, ma che niente avevano a che fare con esso. Furono
condotti alle Fosse Ardeatine e barbaramente ammazzati.
“Avevo bisogno – ha scritto poi in un libro la
Capponi - di ritrovare tutte le ragioni che mi portavano a compiere
quell’attacco. Ripensai ai bombardamenti di san Lorenzo, a quella guerra
ingiusta e terribile, alle voci dei bambini del brefotrofio imprigionati dal
crollo, allo strazio delle distruzioni che si vedevano ovunque e di cui avevamo
notizia ogni giorno, ai nostri compagni fucilati, torturati in Via Tasso, a
tutti i deportati, agli ebrei nei lager, a tutti i paesi oltralpe sconvolti
dalla devastazione. A quanti tra i miei amici erano già morti: sul fronte
russo, in Grecia, in Iugoslavia… malgrado questi pensieri il mio animo era
distante e nel pensare a quei soldati non riuscivo a provare odio. I miei
sentimenti erano come raggelati, sospesi, come se non potessi trovare tutta
intera la ragione della mia scelta… ma a poco a poco mi convinsi che non
preparavo un agguato a innocenti… recuperai la visione esatta della realtà che
stavo vivendo: per tutti coloro che avevano sofferto ed erano morti
ingiustamente perseguitati, per loro dovevo battermi.”
Una
convinzione alla quale è rimasta sempre fedele, perché quell’azione militare –
e le altre che caratterizzarono i gruppi partigiani - “hanno rialzato l’onore
del nostro paese”. Il fascismo – sottolineò con me Carla Capponi – non è
l’Italia: “l’Italia è un’altra cosa, ha una sua caratteristica che è la
solidarietà, l’unione di culture e tradizioni, anche religiose”.
Del resto, contro
quel fascismo si era coalizzato tutto il mondo. L’America della grande
industria e del capitalismo si era alleata con l’Urss, paese del socialismo
reale.
L’antifascismo - insistette Carla Capponi - è un valore che non può essere accantonato. Deve rimanere sempre
vivo. Un valore che va al di là delle differenze:
ecco perché è alla base della Costituzione, nella quale è sancito pure un
altro principio fondamentale: "L'Italia ripudia la guerra come strumento
di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle
controversie internazionali" (articolo 11). Avrebbero dovuto aggiungere che rifiuta anche la fabbricazione delle armi.
Invece noi abbiamo ripudiato la guerra, ma vendiamo le armi ai paesi che la
fanno. Bisognerebbe togliersi questa maschera. Dobbiamo operare affinché questo
commercio si fermi. “Al di là
di quello che avvenne in un momento storico particolare – mi confidò, a conclusione del nostro incontro
-, la mia vita è stata tutta dedicata a convincere gli altri a cercare
l’unione, le alleanze, la comunicazione, a recuperare il senso del rispetto
dell’altrui persona. Questo è il fondamento
dell’idea che ho sempre avuto anche del partito a cui avevo aderito. Un
partito che ha creato la democrazia in Italia, non è stato mai violento, non ha
mai avuto tentazioni eversive. Noi avevamo vissuto l’esperienza durissima non
solo del carcere, durata 15-18 anni, dove molti dei nostri dirigenti avevano
passato lungo tempo. Quello che ho fatto, l’ho fatto con estrema convinzione.
Da allora, però, questo nostro paese ha compiuto tanti passi avanti. Ha
progredito. Ora c’è solidarietà”.
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