Recentemente, un amico,
abituale frequentatore del corso Reginna (ci abita pure), mi ha chiesto: “Ti sei
occupato di tante cose, perché non scrivi delle nostre ‘carcare’?” E
mi ha riferito particolari interessati sulla loro ubicazione (alcune lungo la
strada statale, altre sugli scogli, quasi lambite dal mare), su come vi si
fabbricava la calce, mettendo a cuocere pezzi di roccia. Argomento stimolante,
che mi sarebbe piaciuto trattare già da tempo.
Non l’ho fatto per pigrizia, pur avendone discusso varie volte con Raimondo Esposito, da poco scomparso, col quale spesso m'intrattenevo in amabili conversazioni. Se sto diventando pigro,
ahimé!, è perché l’età comincia a pesarmi e gli stimoli si affievoliscono.
Non sapevo che ci avevano pensato (per fortuna!)
altri, con più competenza di me certamente. Tra questi, Gioacchino Di Martino, conoscitore
e studioso attento di tutto ciò che attiene al territorio maiorese e dell'intera costiera: natura, ambiente,
paesaggio, storia, tradizioni, costumi. Tanto da averne fatto una ragione di
vita.
Arrivo alla notizia - mandatami da Giovanna Dell'Isola -, che è
questa. Domani, venerdì 18 gennaio, alle ore 18.00, nel salone di
rappresentanza di palazzo Mezzacapo, a Maiori, ci si occuperà appunto dell’antico
mestiere del “carcararo”, partendo da una ricognizione fotografica dei ruderi delle nostre “carcare”.
Seguirà una descrizione – supportata da materiale video curato da Roberto
Pisani -, del procedimento attraverso il quale si perveniva alla trasformazione
della roccia calcarea in calce, a cura dell'amico Gioacchino e di Alfredo Bottone, che ha operato in questo campo fino alla metà degli anni
cinquanta del secolo scorso, quando l’ultima “carcara” è stata definitivamente spenta.
Ma, soprattutto, sarà
interessante ascoltare la testimonianza del compianto Raimondo Esposito, rappresentante
di una delle due famiglie (l’altra era appunto quella Bottone) che permisero a
Maiori di diventare il centro propulsore di un’attività che, per lunghi
anni, ha costituito la fonte di sopravvivenza per non pochi nuclei familiari e
la base dello sviluppo edilizio in Costiera amalfitana. La
produzione della calce si basava sull’utilizzazione di due componenti del
patrimonio naturale locale: il legname ed il calcare ed avveniva utilizzando un
forno circolare, chiamato appunto carcara, realizzato in pietra locale, di
diametro ed altezza variabili ma dell’ordine, comunque, di alcuni metri (si
pensi che la produzione media di calce viva per ciascun processo variava
dalle 200 alle 1.500 tonnellate circa).
Si trattava, peraltro, di un
mestiere durissimo: “Manco lu cane puozze patì chello ca patisce lu carcararo”
recitava un’antica nenia locale. Il fuoco appiccato all’interno della fornace doveva
essere continuamente alimentato giorno e notte. Un’interruzione, sia pure breve, avrebbe significato il blocco dell’intero
processo e la perdita del prodotto. Per questo, coloro che ci lavoravano erano costretti a stazionare e dormire (a turno) nelle immediate vicinanze della calcara.
Anche le avversità atmosferiche - ricorda Gioacchino Di Martino - venivano sopportate e affrontate
adeguatamente: “carcararo miette 'a tenda ca stanotte chiove” era il grido che, partito dai pescatori,
notoriamente conoscitori dei fenomeni meteorologici, risaliva la valle a
suscitare allarme e predisporre rimedi.
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