Amalfi, venerdì 27 dicembre 2013, ore 17.00
Sala della Biblioteca comunale
Pietro Scoppetta è morto a Napoli nel
1920. Era nato ad Amalfi nel 1863. Aveva cinquantasette anni. Nella lapide
celebrativa apposta poco dopo, dirimpetto al mare, il
drammaturgo Roberto Bracco, che era tra i suoi amici più cari, volle
sottolinearne la pura e grande anima, “adulta nell’arte ancora fanciulla nella
vita”. A centocinquant’anni dalla nascita, Amalfi ha fatto bene a ricordarlo
con la bella mostra allestita negli arsenali, dove non sono esposti dipinti, ma
suggestive illustrazioni: di canzoni, romanzi, frontespizi di libri editi
all’estero, in particolare in Francia e in Austria. E poi le cartoline, tante.
Ho letto da qualche parte che faceva queste cose per guadagnarsi da vivere. Ma le faceva col rigore e l’inventiva
dell’artista.
Scoppetta, dunque, non è stato dimenticato dalla
sua terra. Gli sono state dedicate due importanti mostre: la prima, del
giugno-luglio 1963, nell’Arsenale, a cura di Alfredo Schettini, e l’altra,
ancora più completa, del dicembre 1998, a palazzo sant’Agostino, sede della
Provincia, a cura di Massimo Bignardi. A entrambe ho avuto la fortuna di dare
il mio piccolo contributo. Nel ’63 facevo parte del comitato organizzatore, nel
’98 ho collaborato con Bignardi in fase di allestimento e poi con un saggio, in
catalogo, nel quale ho trattato le vicende della vita sociale in costiera tra
la seconda metà dell’ottocento e i primi decenni del novecento. Dico di più: la
mostra del ’63 partì proprio da una idea, sostenuta dal pittore Almerico
Tomaselli, torinese ma salernitano di
origine, che allora guidava l’annuale raduno dei pittori piemontesi in
costiera. Tomaselli venne tenuto fuori dall’organizzazione e ci rimase male.
Conservo una lettera nella quale mi esprime delusione e disappunto.
Questa sera non mi azzarderò a parlare di Pietro
Scoppetta come artista, non è il mio compito.come
Dirò qualche parola sul libro. Soprattutto sulla
sua genesi. Vi prego di avere la pazienza di ascoltarmi.
“Ritmi del cuore” fu pubblicato con lo pseudonimo
“Pictor Petrus” da L’editrice italiana
nel 1919, un anno prima della morte dell’autore. Nel 1981 Giuseppe De Luca, che ne era entrato
in possesso (il libro non era facilmente reperibile sul mercato antiquario), lo
ristampò in copia anastatica. La nuova edizione, di cui trattiamo questa sera,
a cura di Antonio Porpora Anastasio, per conto del Centro di Cultura e del
Comune, si differenzia dalle precedenti per poche ma significative varianti,
suggerite ad Antonio Porpora Anastasio dalla consultazione di un testo
dattiloscritto appartenuto al nonno, del quale egli porta il nome: un avvocato
molto amico di Scoppetta. Sono stati corretti i tanti errori tipografici
contenuti nell'edizione del 1919.
Esprimo qui un'opinione del tutto personale: ci avrei visto
bene una breve introduzione neppure critica, ma volta a chiarire, per quanto
possibile, le motivazioni che hanno spinto l’artista, uomo di cultura,
eclettico, pittore e musicista, a mettere sulla carta i propri sentimenti. E,
ovviamente, una scheda biografica. Per evitare che qualche sprovveduto venga indotto a domandarsi: Pictor Petrus, Scoppetta, chi è costui?
“Ritmi del cuore”: già il titolo appare
illuminante. E’ la storia di un amore raccontata in versi. D’altronde, la
poesia, prima ancora che metrica e pagina scritta, non è forse uno stato
d’animo, una lettura della propria anima, della propria vita? Un modo di
sfogarsi, rendendo gli altri partecipi di gioie, dolori, delusioni, vittorie,
sconfitte? Nella prefazione alle sue
“Ballate liriche” William Wordsworth definisce il poeta “un uomo che si compiace
delle proprie passioni e dei propri desideri, e che - più degli altri uomini –
gioisce dello spirito della vita che è in lui…”. Il poeta, in fin dei
conti, è un uomo: sia pure dotato di
sensibilità più viva, di maggiore entusiasmo e tenerezza, di una più profonda
conoscenza della natura umana e di un animo più vasto di quanto si ritenga
comune all'umanità. Il poeta è un uomo che parla ad altri uomini. Ma è,
soprattutto, colui che sa cogliere i momenti felici dell'ispirazione per
trasfigurare in poesia le immagini della quotidianità. Come il pittore, come il musicista. E’ quel che avviene in qualsiasi forma d’arte.
Tra le ragioni che spingono a scrivere poesie c’è
quella di manifestare un amore, di conquistare il cuore dell’amata, di
proclamare la propria felicità o infelicità,
a seconda delle situazioni, degli stati d’animo. “Dal culmine della
felicità da cui discendo, / io ne discendo ebbro. / Porto con me il contatto
con la Dea.” E’ questa la poesia che apre la raccolta. Spetta a noi capire chi sia questa dea. La
dichiarazione si fa via via più esplicita: “Per un immenso amore / occorre
l’incontro di una beltà meravigliosa / e di un grande cuore. Ecco perché il mio
amore è immenso…”.
La raccolta comprende 67 poesie. Più una, aggiunta
dal curatore in appendice. Che, però, essendo datata 1898, non può essere messa
in relazione a tutte le altre. Tranne l’ultima, che ha un titolo: “Come la luna”, tutte le
altre hanno una numerazione progressiva.
Leggendole , nell’ordine in cui sono inserite nel libro, a me
sembra di scorrere le pagine di un diario intimo, riferito a una storia
tormentata, che procura al protagonista - il pittore diventato poeta - più
lacrime che sorrisi. Peccato che non siano datate.
Le poesie di “Ritmi del cuore” coprono, secondo me -
lo dico sulla base delle informazioni raccolte nei nei testi che ho consultati -, un arco di tempo che va dal 1916 al 1919: un periodo caratterizzato da una ardente passione
amorosa, che rende l’artista particolarmente inquieto. Aveva scorazzato per l’Europa: Parigi,
Londra, Monaco, Milano, Venezia. Nella Ville Lumière, in particolare, era stato
accolto come un petit maître. Aveva partecipato alla vita dei boulevards, degli
Champs-Elisées, di Montmartre.
Il ritorno a Napoli lo aveva mandato in crisi.
Riferisce Alfredo Schettini che “aveva paura della solitudine della sua camera
da scapolo, della solitudine triste del suo letto: aveva cioè terrore del sonno
che, negli ultimi tempi della sua vita, si trasformava in soffocanti incubi;
non tanto per la guerra che lo tormentava come una malattia, ma semplicemente
perché egli non poteva più starsene solo coi suoi pensieri: quella solitudine,
nel suo letto, lo spaventava”.
A tutto questo si aggiunge una crisi di
innamoramento. “Una passione struggente – nota Massimo Bignardi
-, un sentimento intenso, coltivato segretamente nel corso degli ultimi sei
anni”, che si riflette prepotentemente nella sua pittura. Se è vero, ed è vero,
che nei suoi ritratti di donna appare quasi sempre lo stesso volto: quello
di Maria Valdambrini Carrara, che egli
battezza come la sua “Samaritana”:
”Non fosti tu la mia Samaritana / nella landa
deserta? / Tu m’offristi uno spicchio soltanto / del tuo cuore d’arancia, / e
ancor sulle mie labbra / sento il dolce liquore, / ancor nelle mie vene / corre
l’ebbrezza del possente aroma! / Non fosti tu la mia Samaritana /nella landa
deserta?”.
Scoppetta
l’aveva conosciuta tra il 1911 e il 1912 nel salotto dell’attrice Vittorina
Lepanto, a Roma. Lei, giovane marchesa, appartenente all’aristocrazia
capitolina, bellissima, era sposata con Pietro Carrara, facoltoso imprenditore
di origine bergamasca, con interessi nel mondo dello spettacolo. La coppia viveva a Roma, in un villino di via Nomentana. Scoppetta
diventò ben presto loro amico, frequentò la loro casa romana e quella delle
vacanze a Siderno, in Calabria. Maria, che dimostrava attitudini per l’arte, fu
sua allieva, sua modella. Oltre che sua mecenate.
Alla personale del gennaio 1918 alla galleria Geri
di Milano, alcune opere esposte si riferivano direttamente a lei: Bignardi cita “La
scolara attenta”, “Lezione di pittura”, “La pittrice”.
Un amore disperato, impossibile? Tenuto segreto,
eppure reso esplicito da una serie di ritratti, il primo dei quali risale al
1916-17. Peccato che sia andato perduto (esiste solo una riproduzione
fotografica). Scoppetta aveva cinquant’anni, lei era giovane, brillante, piena
di interessi, madre della piccola Elsa alla quale lui s’era molto affezionato,
tanto da raffigurarla spesso, anche fra
le braccia della mamma.
Dicevo prima che le poesie di questo libro mi
sembrano pagine di diario. La convinzione mi viene da un particolare, messo in evidenza proprio da Bignardi. Nei documenti conservati dagli
eredi Carrara, cioè gli eredi di Maria Valdambrini e del marito, v’è una copia della prima edizione di “Ritmi
del cuore”, quella del 1919. Nelle pagine bianche, dopo l’indice, vi sono
incollati quattro piccoli fogli tratti da un block-notes con frasi scritte di
pugno dall’artista. Ipotizzo che si tratti di altre poesie inserite in coda al libro stampato. Quanto meno alla copia destinata a una persona, a quella persona. Non potrebbe essere altrimenti. In una recensione, su Il Mezzogiorno del 29 ottobre 1919, Ferdinando Russo parla di "delicata e tormentata psiche di Pietro Scoppetta". A proposito delle poesie, le definisce "stati vibranti della sua psiche. Schizzi. Acquerelli. Appunti direi quasi stenograficiDocumenti, ma mirabili, ma strazianti". E stigmatizza chi ci ha riso sopra. "Non ha capito - aggiunge. - Chi confonde l'Amore con 'gli amori' non può capire"-
Certo è che Scoppetta mantenne stretto il rapporto
d’amicizia con Pietro Carrara fino agli ultimi giorni di vita. Ne è prova una
lettera speditagli il 4 febbraio del
1920, cinque giorni prima della morte improvvisa.
Io non so dire fino a che punto egli visse una
vicenda sentimentale, o passionale, o semplicemente fu tormentato da uno
struggimento d’amore, consapevole del vincolo matrimoniale che legava la donna
e della differenza d’età che poteva farla apparire più una figlia che
un’amante. Lo dichiara egli stesso nella poesia contrassegnata dal numero 6:
“Eravam fatti per viaggiare insieme. / Ma tu venisti tardi; io troppo presto. /
Tu sali ora nel treno ed io ne scendo; /
ed è un viaggio che non si rifà. / Pochi minuti di fermata. Il tempo / di
guardarsi per gli occhi dentro l’anima / e dirsi: Buon viaggio, Buon riposo!…”.
Sigismondo Nastri