Non ho il piacere di conoscere
George Clooney. O, meglio, lo conosco per
il suo lavoro di regista e attore cinematografico, per la sua love story (ormai
esauritasi) con Elisabetta Canalis, per una simpatica pubblicità televisiva. Ma
lo conosco, e lo apprezzo, soprattutto per l’attività a favore delle
popolazioni martoriate del Sudan. So che da poco è rientrato dal Sud Kordofan,
una delle regioni contese tra Sudan e Sud Sudan, teatro di una guerra
fratricida. Proprio ieri, ricevuto alla Casa Bianca, aveva chiesto a Barak
Obama di intervenire presso il presidente cinese Hu Jintao, l’unico
che può far presa sul presidente sudanese Omar el Bashir (anche perché da lui
la Cina importa petrolio), per evitare una catastrofe, che ci sarà di certo se
non si riesce a farvi arrivare cibo e medicinali. Il tempo stringe, non ci sono più di tre o
quattro mesi di tempo, sostiene Clooney, che è andato pure a illustrare questa
grave emergenza al Congresso americano.
Per tutta risposta, ieri lo ha
arrestato, insieme al padre settantottenne e ad altre persone, tra cui deputati
e leader di organizzazioni per i diritti umani, perché – mentre manifestavano a
Washington davanti all’ambasciata del Sudan – avevano superato l’off limit
imposto dalla polizia. Sul web scorrono già le immagini che lo mostrano in manette.
In particolare, l’attore – lo leggo su www.corriere.it
– stava chiedendo proprio che il governo sudanese autorizzasse l’ingresso in
quel paese degli aiuti umanitari.
Come ho scritto sopra, non
conosco Clooney, non sono un suo fan. Ma desidero manifestargli sentimenti di ammirazione e di riconoscenza per
il suo impegno, che – ne sono
certo – riprenderà con maggiore convinzione e rafforzato entusiasmo appena superato questo momento
di difficoltà.
Anche tutta la mia solidarietà
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