Col Corriere della sera è uscito, qualche giorno fa, una raccolta di scritti (e discorsi, soprattutto) di Aldo Moro, dal titolo “La democrazia incompiuta”. Mentre ne scorro le prime pagine, precedute dall’attenta prefazione di Massimo Franco, il mio pensiero torna a quella maledetta mattina del 16 marzo 1978, quando la radio diffuse la notizia del rapimento del grande statista, in via Fani, a Roma, e dell’uccisione dei cinque uomini della sua scorta. Questo avveniva in un passaggio delicato della nostra vita politica e parlamentare. Era, infatti, il giorno della presentazione alla Camera dei Deputati del quarto governo Andreotti, quello della “solidarietà nazionale”, con il determinante appoggio esterno del Partito comunista. Si trattava di una svolta, voluta proprio da Moro, che l’aveva anticipata in un suo discorso: “Noi siamo in condizione di paralizzare in qualche modo il Partito comunista e il Partito comunista è a sua volta in grado di paralizzare in qualche misura la Democrazia cristiana… Bisogna trovare un’area di concordia, un’area di intesa tale da consentire di gestire il Paese finché durano le condizioni difficili nelle quali la storia in questi anni ci ha portato”.
Il rapimento fu rivendicato due giorni dopo con il primo dei nove raccapriccianti comunicati delle Brigate Rosse. In 55 giorni di prigionia Moro scrisse 86 lettere (indirizzate per lo più ai familiari, a uomini politici; ma anche a Gaetano Afeltra, direttore de “Il Giorno”), con le quali tentò di spingere a una trattativa per la sua liberazione. In suo favore intervennero accoratamente il papa, Paolo VI, e il segretario dell’ONU Kurt Waldheim. In Italia il mondo politico si divise tra quanti - compresa una buona parte della dirigenza democristiana - erano contrari a ogni ipotesi di dialogo con le Brigate Rosse, e il cosiddetto “partito umanitario”, capeggiato da Bettino Craxi. Vinsero, ahimè!, i "falchi" e, conseguentemente, il presidente della Democrazia Cristiana fu abbandonato al suo destino.
Risultato: il cadavere di Moro, assassinato dalle Brigate Rosse, fu fatto trovare il 9 maggio, nel vano bagagli di un’auto – una Renault 4 rossa – parcheggiata a Roma, in via Caetani, nei pressi delle sedi della Dc e del Pci. La vicenda, dalla quale sono scaturiti libri, dibattiti, persino film, non è stata mai chiarita in maniera convincente e... definitiva. Resta, perciò, tuttora avvolta da ombre e misteri, nonostante che gli esecutori del rapimento e dell'assassinio siano stati catturati e condannati.
Aldo Moro (a destra) insieme con il deputato Francesco Amodio in occasione di una sua venuta ad Amalfi. In secondo piano, a sinistra (con la cravatta chiara), Sigismondo Nastri |
Aldo Moro – scrive la figlia Agnese in un libro denso di ricordi – “non si stancò mai di lavorare per creare dialogo, comunicazione, comprensione, rispetto reciproco”. Era “un uomo così”. Schivo e riservato, quasi timido, con le sue debolezze, i suoi hobby, con un culto sacro della famiglia. Un uomo dotato di grande intelligenza, di straordinaria sensibilità, animato da una profonda religiosità. Ma, nello stesso tempo, un politico capace di vedere oltre il contingente, di elaborare tattiche e strategie proiettate nel futuro, di mediare tra opposte tendenze per dare un contributo fondamentale alla democrazia, alla convivenza civile, al progresso economico dell’Italia. Moro – nota la figlia – “aveva sessantuno anni e avrebbe potuto fare ancora tante cose per il Suo Paese e per noi”. Peccato che non gli sia stato consentito. La vita politica, nel nostro paese, avrebbe avuto un diverso sviluppo e ci saremmo, forse, evitati il “tormentone” di quest’ultimo decennio.
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