M’è capitato nelle mani il n. 198 de “La Voce del
Pastore”, bollettino della
Parrocchia di sant’Andrea apostolo di Amalfi, datato gennaio-giugno 2010. Nelle
pagine 12-14 vi trovo la storia del cinema Diana, punto di
riferimento di quelli della mia generazione, raccontata da un
protagonista, Aniello Lauro, che ha percorso le orme tracciate dal
padre, l’indimenticabile Bartolo Lauro, ‘o direttore, come tutti
lo chiamavamo.
Aniello ricorda che la passione per il cinema ha
coinvolto quattro generazioni della sua famiglia, da quando nel 1907 il nonno, mast'Aniello,
maestro falegname, decise di aprire ad Amalfi la prima sala, che chiamò
pomposamente “teatro Verdi”. Era nel vicoletto (‘e dooje mure)
che porta a santa Maria Maggiore, ai piedi della scalinata, e aveva una
capacità di 250 posti tra platea e loggione. Vi si rappresentavano soprattutto
operette. Quella via però era stretta e, di conseguenza, per motivi di
sicurezza, nel 1919 arrivò un provvedimento di chiusura.
Mast’Aniello non si perse d’animo. Trovò un altro
locale idoneo, sulla prima rampa delle scale che conducono a san Giacomo. L’anno
seguente ne affidò la gestione al figlio, Bartolo, che subito si meritò il
titolo di… ‘o direttore. Con
l’avvento del fascismo il “Verdi” divenne “cinema Dux”. E
quando, nel 1937, il regime vietò ai locali pubblici di usare questo nome, fu ribattezzato
“Impero”. Poi, nel 1945, a guerra terminata, “Diana”.
La sala, piuttosto piccola, era ripartita in due
livelli, la platea sotto, la loggia sopra, e poteva contenere al massimo 120
spettatori. Ma quando si proiettava un film importante c’era chi si
accontentava di vederlo in piedi, mettendosi appoggiato alla parete.
Nel 1947, riferisce Aniello Lauro, ad Amalfi si aprì
anche la sala “Roma”, gestita da un maestro elementare (Negri).
Era in via Pietro Capuano, all’angolo con via santa Maria Maggiore (‘e ddoje
mure). I due cinema venivano così a trovarsi a una distanza di venti,
venticinque metri l’uno dall’altro. Ci fu subito concorrenza. Nei
tabelloni, scritti a mano col pennello, che annunciavano la programmazione,
cominciarono ad apparire frasi di sfottò, da parte di Bartolo Lauro, che era un
personaggio intelligente, dinamico, brillante, arguto. Capitò, così, che un
giorno al “Roma” si proiettava “I Sette Gladiatori”. Al titolo
della pellicola Negri, sul manifesto, aveva aggiunto: “Sono i più forti”.
“Ce ne vogliono ancora tre per eguagliare i miei dieci” replicò il
patron del “Diana” sul cartellone che
annunciava, in contrapposizione, “I Dieci Gladiatori”.
Bartolo Lauro – sottolinea il figlio – nel corso degli
anni escogitò ogni strategia per far presa sul pubblico. Si inventava la
lotteria che consisteva nel sorteggiare un biglietto omaggio per il prossimo
film, la domenica faceva portare al cinema una tinozza di gelati e ne offriva
uno a ogni spettatore, distribuiva confetti in occasione del matrimonio di una
sorella, riduceva il costo del biglietto nella ricorrenza del compleanno di un
figlio o della nascita di un nipote.
Fatto è che la sala “Roma” andò in crisi e
dovette chiudere di lì a poco.
Nel 1950, nacque, in un edificio di nuova costruzione,
il cinema “Iris” (poi “Odeon”, ora “sala Ibsen”), moderno,
con una capienza di cinquecento posti. Fu inaugurato - c'ero anch'io quella
sera - con “Marcellino pace e vino” alla presenza del sindaco,
dell’arcivescovo e di tutte le autorità locali. Bartolo Lauro corse subito ai
ripari, ristrutturando il “Diana”
e rinnovando le apparecchiature (acquistò un proiettore con cinemascope) e
le suppellettili. Nel 1958 fu premiato con medaglia d’argento e diploma per la sua
attività ultraventennale. Il 10 ottobre 1961 ricevette l’onorificenza di
cavaliere dal presidente della Repubblica Gronchi. Meritato riconoscimento
delle sue qualità umane e professionali. Senonché, appena un mese dopo, morì
mentre stava giocando con i nipoti nel suo negozio di colori e ferramenta. La
notizia fu accolta con dolore ad Amalfi e in tutta la costiera., dove era
conosciuto e stimato. La gestione del cinema passò ai figli.
Questa, in sintesi, la storia del “Diana” che rimase
in funzione fino al 1980. Ma ci sono le ‘storie’, a volte esilaranti,
delle quali Aniello si fa memoria. Riprendo il suo racconto: “Chi non
ricorda il mitico Totò [Totonno] Esposito o Gigino detto ‘o Panzittone,
nostri operatori che dalla cabina di proiezione diventavano protagonisti e
all’occasione censori, aumentando o diminuendo il volume per una pernacchia
fragorosa o coprendo con lo sportellino del proiettore una scena osé”,
mentre dalla sala il pubblico reagiva con “fischi, pernacchie, applausi,
urla spietate”. Sembrava di assistere – commenta Aniello – ai combattimenti
tra Maciste e Ercole o alle cariche della cavalleria contro gli indiani. Ne
facevano le spese i braccioli delle sedie. “Che sceneggiate, ma quanti
danni!”.
Le ho ben presenti queste scene. Come mi ricordo che,
a film appena iniziato, c’era immancabilmente chi apriva la porta di sicurezza
in fondo alla sala, per far entrare un piccolo esercito di ‘portoghesi’.
Per lo più ragazzi. “L’organizzazione – nota Aniello – era una sorta
di assalto alla Bastiglia; dieci ragazzi facevano la colletta tra loro per un
solo biglietto, il ragazzo col biglietto accedeva nella sala e, iniziato il
film, nella semioscurità apriva la porta di sicurezza e da questa
s’infiltravano tutti i ragazzi che avevano partecipato alla colletta, prendevano
posto, ma, come in un vero film, arriva la polizia; mio padre ed io,
individuati gli infiltrati, prendendoli per le orecchie li cacciavamo fuori
come in un Saloon Western che si rispetti… Ma dopo poco il clan tornava alla
carica”. Non c’era altro da fare che fingere di non vedere.
Ecco, infine, un episodio esilarante. Una
sera si proiettava un film d’azione, di quelli che tengono lo spettatore
col fiato sospeso fino all’ultima scena. La sala era piena. Il silenzio, pressoché
assoluto, fu rotto all’improvviso da una scorreggia. Possente, come
un petardo, proveniente da un gruppo di ragazzi seduti nelle ultime file. Altro
che “elli avea del cul fatto trombetta” come leggiamo nella Divina
Commedia (Inferno,
XXI, 139). Mi torna alla mente un antico proverbio: “Tromba di culo sanità di corpo,
chi non scorreggia è un uomo morto”. Tanti anni fa, lo trovai pure scritto
sul muro, a caratteri cubitali, in un ristorante italiano di Parigi, sito in
rue Cardinal Lemoine.
Quella sera, al “Diana” di Amalfi, il pubblico scoppiò
in una risata altrettanto fragorosa, capace di togliere dall'impaccio l'anonimo... 'trombettiere'; non la pensò allo stesso modo un brigadiere dei Carabinieri che si
alzò di scatto dalla sedia, ordinò di accendere le luci, quindi si mise a
identificare uno per uno quei... ‘mascalzoni’. La situazione era a dir poco
comica. Il responsabile (credo che si chiamasse Antonio) fu
individuato (forse si autodenunciò per evitare noie ai partner) e incriminato per
schiamazzo in luogo pubblico. Il giorno del processo, l’aula della pretura, in
piazza Municipio, appariva gremita di gente. Non si capiva se il povero
pretore, abituato a farsi carico di ben altri problemi, era più divertito o
infastidito di doversi occupare della faccenda. L’imputato si giustificò: “Signor
giudice, che volete, m’è venuta naturale. Non ce l’ho fatta a trattenerla. Ero
tutto preso da una scena travolgente del film… e non me ne sono nemmeno
accorto". Chiaramente mentiva, lo sapevano tutti che s'era trattato di una bravata. La sentenza fu di assoluzione piena, perché “il
fatto non costituisce reato”.